La sicilianissima Costanza di Svevia, o di Hohenstaufen, nacque a Catania nel 1249, prima figlia di Manfredi di Sicilia, ultimo re di Sicilia della dinastia sveva, e l’unica avuta dal matrimonio con Beatrice di Savoia.
In realtà, pare che Manfredi abbia usurpato il trono che era stato del nipote Corrado Hohenstaufen, detto Corradino, re di Sicilia come Corrado II e figlio dell’imperatore Corrado IV, a sua volta re Corrado I di Sicilia. Ad ogni modo, tale usurpazione, o reggenza che dir si voglia, consentì al piccolo Corradino di passare un’infanzia serena in Baviera, con la madre Elisabetta di Wittelsbach.
Morto il 26 febbraio del 1266 nella decisiva battaglia di Benevento contro Carlo d’Angiò, Manfredi fu seppellito ai margini del fiume Calore. Più volte scomunicato e inviso al papato, pochi mesi dopo le sue spoglie furono disseppellite e portate altrove, per volere dell’arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli.
Il 17 aprile del 1614, durante i lavori di rimozione delle macerie del ponte di Ceprano sul fiume Liri, un sarcofago in marmo, casualmente rinvenuto sul posto, fu identificato come la bara di Manfredi. Per quanto riguarda le sue spoglie, invece, l’ipotesi più accreditata è che siano state disperse nelle acque del fiume.
Come riferisce lo stesso vescovo e cronachista Saba Malaspina, Manfredi venne rimpianto da tutti i popoli caduti sotto il giogo angioino:
«O re Manfredi, non ti abbiamo conosciuto vivo; ora ti piangiamo estinto. Tu ci sembravi un lupo rapace fra le pecorelle di questo regno; ma da che per la nostra volubilità ed incostanza siamo caduti sotto il presente dominio, tanto da noi desiderato, ci accorgiamo infine, che tu eri un agnello mansueto. Ora sì che conosciamo quanto fosse dolce il governo tuo, posto in confronto dell’amarezza presente. Riusciva a noi grave in addietro che una parte delle nostre sostanze pervenisse alle tue mani, troviamo adesso che tutti i nostri beni, e quel che è peggio, anche le persone vanno in preda a gente straniera!»
Alla morte dello zio, Corradino venne invocato dai ghibellini per combattere e cacciare il nuovo e odiato sovrano.
Accolto con entusiasmo, soprattutto nella ghibellina Pisa, mosse alla volta di Roma, dove conseguì quel trionfo di cui non era stato capace neppure il nonno, l’imperatore Federico II di Svevia, stupor mundi, re di Sicilia come Federico I.
Incoraggiato anche da una serie di vittorie, si diresse a Sud, intenzionato a riprendersi quel regno che era stato dei suoi avi.
Il 23 agosto del 1268, sull’altopiano marsicano dei Piani Palentini, si ebbe lo scontro finale, drammaticamente passato alla storia come Battaglia di Tagliacozzo.
Sconfitto, Corradino riparò dapprima a Roma, quindi a Torre Astura, lungo il litorale laziale, dove, tradito dai Frangipane, i signori del luogo, venne catturato.
Processato e condannato a morte per lesa maestà, si attribuisce a papa Clemente IV, per l’occasione, la frase «Mors Corradini, vita Caroli. Vita Corradini, mors Caroli», «La morte di Corradino è la vita di Carlo. La vita di Corradino è la morte di Carlo», pronunciata a mo’ di consiglio a un Carlo I d’Angiò timoroso della reazione di un popolo profondamente legato alla dinastia sveva.
Corradino morì il 29 ottobre del 1268, neppure diciassettenne, decapitato a Campo Moricino, l’attuale Piazza del Mercato di Napoli.
Leggenda vuole che egli, andando dignitosamente al patibolo, si sia sfilato un guanto e lo abbia lanciato alla folla. A raccoglierlo, Giovanni da Procida, già consigliere di Federico II e tra i futuri promotori della Rivoluzione del Vespro!
Il suo cadavere fu oltraggiato, trascinato e abbandonato vicino al mare, ricoperto solamente da qualche pietoso sasso!
Nel 1351, sul luogo del patibolo, venne eretta una piccola cappella. Nel 1786, essa venne trasformata nella Chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato, consacrata nel 1791. Danneggiata dai bombardamenti nel corso della seconda guerra mondiale, poi dal terremoto del 1980, l’accesso vi è oggi precluso.
Informata della cattura e della condanna a morte del figlio, Elisabetta si precipitò a Napoli, nel disperato e vano tentativo di riscattarlo.
Poté solamente fare un lascito a quella che è oggi la vicina Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore, dove riposano le spoglie di Corradino. In virtù di quel lascito, ancora oggi, ogni anno, viene celebrata una messa in suo suffragio.
Altra leggenda narra che Corradino abbia trascorso la notte prima dell’esecuzione in compagnia di una donna. Dalla loro unione sarebbe nato un figlio, legittimo erede della dinastia sveva.
Da essa trasse spunto, una decina di anni fa, lo scrittore Giuseppe Pederiali per il romanzo La vergine napoletana.
Morto Corradino, Carlo I d’Angiò si preoccupò di imporre un regime fiscale oppressivo, vietò il porto d’armi, istituì la perquisizione personale, estesa anche alle donne, introdusse l’odioso jus primae noctis, perseguitò con crudeltà ogni atteggiamento antifrancese.
Non è difficile comprendere, quindi, come al popolo siciliano sia sempre stato inviso il giogo angioino. Mancava solo l’occasione!
Nel frattempo, nel 1262 Costanza aveva sposato, a Montpellier, Pietro, incoronato nel 1276 re d’Aragona come Pietro III, detto il Grande.
Alla morte di Corradino suo cugino, Costanza rimase l’unica e legittima discendente della dinastia sveva. Allo scoppio della Rivoluzione del Vespro, il 30 marzo del 1282, lunedì dell’Angelo, indusse il marito a intervenire al fianco del Popolo siciliano. Fu così che Pietro, nel frattempo impegnato in una crociata in Nordafrica, sbarcò a Trapani nel mese di agosto, alla guida di un esercito il cui elemento più formidabile era rappresentato da alcune migliaia di Almogàvar, soldati famosi per il loro coraggio, la loro disciplina e la loro ferocia.
Il 30 agosto del 1282, a Palermo, Costanza fu incoronata regina di Sicilia insieme al marito, Pietro I re di Sicilia. Per il Popolo, fu lei l’unica, vera e amata sovrana!
Dal 1285, alla morte di Pietro, che già da un paio d’anni era rientrato a Barcellona, Costanza si occupò in prima persona del Regno di Sicilia, per conto del figlio Giacomo cui lasciò la titolarità della corona.
Quarto figlio di Costanza e suo prediletto fu Federico, nato a Barcellona il 13 dicembre del 1273 e che visse in Sicilia dall’età di nove anni.
Il 15 gennaio del 1296, il Parlamento siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, lo nominò re “Fridericus tercius Dei gratia rex Siciliae”, in sostituzione del fratello Giacomo, reo di aver sottoscritto il trattato di pace di Anagni, voluto da papa Bonifacio VIII, che prevedeva la ritirata degli aragonesi e la cessione della Sicilia agli Angiò.
Il successivo 25 marzo, Federico III venne formalmente incoronato nella cattedrale di Palermo, nell’entusiasmo popolare.
In un tempo in cui si diveniva sovrani per diritto divino, già l’insolita decadenza di un re e l’ascesa di un nuovo sovrano per espresso volere del popolo rappresentò qualcosa di eccezionale.
Egli si sarebbe dovuto chiamare Federico II, ma optò per il numerale III in omaggio al bisnonno Federico II di Svevia, stupor mundi, Imperatore del Sacro Romano Impero con questo nome e re di Sicilia come Federico I.
Chi, tra gli storici, ha inteso minimizzarne la portata, ha fatto prevalere il nome Federico II, eventualmente d’Aragona, creando confusione col più famoso bisnonno e disperdendo, o almeno diluendo, in questo modo, l’effettiva portata della sua figura.
Nel suo pamphlet Federico III di Sicilia: un grande sovrano per un grande popolo, il professore Mirto amaramente rifletteva:
«Quando si vuole ridurre un popolo allo stato coloniale gli si toglie la cultura, la lingua e la storia, in maniera che i “colonizzati” finiscano con l’identificarsi con la cultura, la lingua e la storia del paese dominante. E così i Siciliani si sono convinti del fatto che non hanno una loro cultura, che la loro lingua è un rozzo dialetto (nel secolo XIV e XV invece la Real Cancelleria emanava in lingua siciliana documenti firmati dal sovrano), che non hanno una loro storia. Infatti parte della storia siciliana è stata fatta scomparire e, quella che è rimasta, viene presentata come un susseguirsi di dominazioni straniere che vedono i Siciliani oggetto inerte della storia»!
In realtà, Federico III fu un grandissimo sovrano, amatissimo dal Popolo. Egli è il mio Re!, “un re da leggenda” come lo avrebbe definito, nel 1951, lo storico spagnolo Rafael Olivar Bertrand, alla guida del popolo siciliano in “una delle epopee più gloriose della storia umana”, nell’epoca “più gloriosa della storia dell’isola”, colui che, per dirlo con le parole del professore Mirto, «guidò vittoriosamente la resistenza del piccolo popolo siciliano contro una grande coalizione europea e durante il suo regno fece il “miracolo”, in un paese dove è tradizionale una cupa, sorda ostilità contro il potere centrale, di rendere il suo governo popolare tra i Siciliani»!
Di fatto dimenticato per secoli, Federico III fu il più grande Re di un regno la cui storia ci parla di 686 variegati anni d’indipendenza dell’isola, dalla notte di Natale del 1130, con la proclamazione a re di Sicilia di Ruggero II d’Altavilla, all’8 dicembre del 1816, con la forzata annessione del glorioso Regno di Sicilia al fantasioso Regno delle Due Sicilie!
Lasciata la Sicilia al figlio prediletto, Costanza rientrò in Aragona dove, nel 1297, si ritirò a vita monastica, dedicandosi alla meditazione e alla preghiera.
Morì a Barcellona il 9 aprile del 1302.
Dal 1852, per volere della regina Isabella II di Borbone, le sue spoglie riposano nella Catedral de la Santa Creu i Santa Eulàlia, nel quartiere gotico di Barcellona.
Beatificata dalla Chiesa Cattolica, è venerata il 17 luglio.