Considerato il testo più importante, una sorta di manifesto dell’indipendentismo siciliano, del pamphlet “La Sicilia ai Siciliani” di Antonio Canepa, pubblicato alla fine del 1942 con lo pseudonimo Mario Turri, se ne sono per lungo tempo perse le tracce, risultando pressoché irreperibile. Riscoperto in tempi più recenti, è stato rivalutato e analizzato in maniera critica, tenendo conto del contesto storico e della vita, avventurosa e drammatica, del suo autore.
Quello che segue ne è il testo integrale. Buona lettura!
CHE COSA CI INSEGNA LA GEOGRAFIA
E CHE COSA CI INSEGNA LA STORIA
La Sicilia è un’isola. Da ogni parte la circonda il mare. Dio stesso, nel crearla così, volle chiaramente avvertire che essa doveva rimanere staccata, separata dal continente.
Ecco ciò che la geografia ci insegna.
Questa separazione, purtroppo, non sempre è stata mantenuta. Gli uomini si sono ribellati al volere di Dio. E hanno voluto riunire con la forza quei territori che Dio aveva ben separato.
Non sono stati, però, i siciliani a passare lo stretto di Messina per andare a comandare sul continente. Sono stati gli uomini del continente a passare lo stretto, con la pretesa di venire a comandare in Sicilia.
Noi siciliani in questo modo abbiamo perduto più volte la nostra libertà, la nostra indipendenza. Siamo stati insultati, calpestati e soprattutto sfruttati. Ridotti alla miseria. Ridotti alla fame.
Ma quando proprio ci misero con le spalle al muro, allora sapemmo reagire anche noi; e prendere le armi; e cacciarli fuori a pedate questi signori venuti di là dal mare e di là dallo stretto.
Circa 450 anni prima di Cristo, sotto la guida di Ducezio, cacciammo dall’isola i greci. Nel 103 avanti Cristo ci sollevammo contro i romani, distruggendo i loro invincibili eserciti: ma eravamo un pugno di popolani e di schiavi; e alla fine dovemmo soccombere.
In un’epoca assai più recente, nel 1282, scoppiarono i famosi vespri siciliani: quanti francesi avevano messo piede in Sicilia vennero scannati senza pietà.
Dal 1647 al 1677 ripetutamente cacciammo gli spagnoli da Palermo e da Messina. Nel 1848 cacciammo i napoletani. E nel 1866 per poco non cacciavamo via gli italiani.
L’esperienza di tante tirannidi ci ha fatto finalmente capire questa grande verità: tutte le volte che la Sicilia è stata indipendente, tutte le volte che si è governata da sé, è stata anche forte, ricca e felice. Invece, tutte le volte che abbiamo dovuto obbedire ai padroni venuti dal continente, siamo stati deboli, poveri e disprezzati.
Ecco ciò che ci insegna la Storia.
LA PRIMA DOMINAZIONE ITALIANA
IN SICILIA, OSSIA QUELLA ROMANA
I fenici e i greci, venendo in Sicilia negli antichissimi tempi, fondarono città, costruirono porti, diedero impulso al nostro benessere spirituale e materiale.
I romani, al contrario, erano ancora un popolo incolto e barbaro, quando la Sicilia già godeva di un grado altissimo di civiltà. Le belle arti, le scienze e la filosofia, l’agricoltura, le industrie e i commerci fiorivano meravigliosamente nell’isola.
Con la dominazione romana ebbero principio le nostre sventure. Fummo trattati come terra di conquista.
Siracusa era allora la più bella e popolosa città della Sicilia: occupata dai Romani dopo due anni di assedio, fu saccheggiata, incendiata; i suoi abitanti vennero massacrati; anche il vecchio scienziato Archimede fu assassinato, mentre era intento ai suoi studi.
Enna, Agrigento ed altre città subirono dai romani la stessa sorte: intere popolazioni furono trucidate o vendute schiave, senza distinzione di età né di sesso.
Da quel momento la Sicilia diventò il granaio d’Italia: il che significa che ci rubarono il grano, affinché l’Italia intera mangiasse alle nostre spalle.
E non soltanto il grano ci rubarono. Ma anche l’olio; e il vino; e la frutta; e il legname dei nostri boschi, che vennero totalmente devastati. Tutto ciò, insomma, che produceva la nostra terra immensamente fertile e benedetta da Dio, tutto ci fu tolto.
Il nostro danaro, estorto con le tasse o con le rapine, prese la via del continente. Le nostre statue d’oro e d’argento furono trafugate dalle chiese e portate al di là dello stretto. Persino i nostri contadini vennero spesso ridotti in servitù!
Qual meraviglia se alla fine la Sicilia insorse? Furono gli schiavi di Enna i primi a sollevarsi. Ma naturalmente tutto il popolo si unì a loro, stanco delle angherie patite.
Racconta Diodoro Siculo che i liberi si mostravano più violenti e più risoluti degli schiavi stessi. E l’illustre storico Mommsen osserva: «Che le condizioni dei lavoratori liberi di Sicilia non fossero molto migliori di quelle degli schiavi, lo mostra il contegno da essi tenuto nell’infuriare di tutte le rivoluzioni».
L’incendio rapidamente si estese all’intera isola: 200.000 erano i ribelli. Quattro pretori e un console romano, coi loro eserciti, vennero schiacciati l’uno dopo l’altro. E ci vollero due anni prima che Roma avesse il sopravvento.
Leggete la storia dei vinti scritta da Giuseppe De Felice col titolo Le guerre servili in Sicilia. E vedrete quale fu il nostro eroismo e quale fu la perfidia dei nostri nemici.
I governatori romani erano una banda di ladri. Ma colui che superò tutti fu Verre, il quale (nei tre anni in cui governò la Sicilia) commise ogni specie di delitti: dalle disonestà nella vita privata, alla corruzione nella vita pubblica; dalle ruberie alle confische; dalle torture alle uccisioni!
Un solo, altissimo, terribile grido di dolore si levò da ogni angolo della Sicilia. E questo grido fu udito fino a Roma.
Si trovò un uomo generoso e coraggioso, un uomo che più tardi, già vecchio, morì sgozzato dai romani per aver amato la libertà: Cicerone. Quest’uomo si commosse al nostro grido; venne in Sicilia a raccogliere le prove dei delitti di Verre. Egli accusò il governatore romano e pronunziò contro di lui due potenti discorsi la cui conoscenza sarebbe molto utile ai siciliani.
Ma Verre si mise in salvo con la fuga, prima ancora di essere condannato …
LA SECONDA DOMINAZIONE ITALIANA
IN SICILIA, OSSIA QUELLA DEI NOSTRI GIORNI
Dopo il crollo dell’impero romano, la Sicilia fu più volte libera e più volte serva.
Sarebbe troppo lungo narrare qui tutti i nostri dolori e tutte le nostre glorie.
Veniamo piuttosto ai tempi moderni. Come fu che, dopo tanti secoli, la Sicilia cadde nuovamente sotto il dominio di Roma?
Nel 1860 la Sicilia dipendeva da Napoli. Unita a viva forza con un pezzo d’Italia, formava il Regno delle Due Sicilie sotto la monarchia dei Borboni.
Ma la Sicilia non voleva saperne di stare unita al continente. Voleva la sua libertà. Perciò gridava: – Abbasso i napoletani! Morte ai Borboni!
La lotta della Sicilia contro i Borboni non ebbe altro scopo che questo: riacquistare la sua piena indipendenza.
È una menzogna, una vile falsificazione della storia, affermare (come oggi si fa) che i Siciliani volessero staccarsi da Napoli per riunirsi niente meno al Piemonte e agli altri Stati d’ Italia!
«La rivoluzione del 1820 ebbe per scopo l’indipendenza della Sicilia»: non è uno scrittore separatista che lo afferma: è uno scrittore unitario, l’avvocato Giuseppe Crescenti, nel suo studio In mezzo secolo quattro rivoluzioni in Sicilia.
Ascoltate ora la conclusione di un libro del barone Francesco Ventura, un libro di ben cento pagine, stampato e ristampato spesso dal 1820 al 1848. Ha per titolo: I diritti della Sicilia alla sua nazionale indipendenza.
«In conseguenza delle cose premesse ed a giustificazione della nazionale Indipendenza da noi voluta, ci sia lecito concludere che questa ci appartiene per un diritto inconcusso, confermatoci fino al giorno d’oggi dai sovrani tutti che ci hanno governato ed ormai convalidato dal suggello di tanti secoli.
Alla solidità del diritto aggiungiamo poi questo: che anche all’interesse della Sicilia decisamente conviene il potersi governare da sé stessa, onde risorgere dalla miseria in cui si trova all’antica prosperità!»
Ed ascoltate il Catechismo Siciliano, di cui è autore il grande storico e letterato Michele Amari. Anche questo libro fu più volte pubblicato clandestinamente dal 1838 al 1848:
«Quale è il principale diritto e bisogno dei siciliani?
L’indipendenza.
Che intendete per indipendenza?
Che la Sicilia si governi da sé.»
Il 12 gennaio 1848 Palermo insorse. La Sicilia tutta insorse. E per diciotto mesi fu libera.
Prendete i due grossi volumi dal titolo Memorie della rivoluzione siciliana dell’anno 1848. Si tratta di vari studi raccolti e pubblicati, a cura del Consiglio comunale di Palermo, nel 1898; cioè dopo l’unità italiana e proprio allo scopo di esaltare l’unità italiana. Tuttavia in questo stesso libro potete leggere:
«Il grande fine della nostra rivoluzione era quello di acquistare l’indipendenza da Napoli, di non essere soggetti a qualsiasi altro Stato, di avere un sovrano per conto nostro».
È Rosario Salvo che scrive. E più in là Giovanni Lucifora, parlando dei deputati siciliani eletti nel 1848, confessa che «solo qualcuno vagheggiava l’unità d’Italia».
Date un’occhiata all’opera di Bonomi su Mazzini triumviro della repubblica romana. Quest’opera è apparsa nel 1936, in pieno regime fascista. L’autore, che è stato Presidente del Consiglio dei Ministri, è Cavaliere dell’Annunziata, cioè cugino del Re. Leggete a pagina 58:
«Anche la Sicilia non si dimostrava affatto sollecita ad accogliere l’idea unitaria dei repubblicani di Roma.
Invano Mazzini, nei primi giorni del moto siciliano, aveva consigliato da Londra di non parlare di autonomia dell’isola e di costituzione siciliana, ma di ispirarsi all’idea nazionale italiana.
Il governo dell’isola, pur dopo le delusioni patite nel 1848, pur davanti al fallimento del suo disegno di offrire la corona siciliana al Duca di Genova, riluttava a trasformare il suo movimento autonomista in movimento unitario e italiano».
Quando la rivoluzione fu soffocata, allora i piemontesi cominciarono la loro propaganda in Sicilia a favore della monarchia dei Savoia.
Ma questa propaganda ebbe scarso successo. Garibaldi, sbarcando in Sicilia nel 1860, credeva di trovare il paese in rivolta. Ma che! I siciliani non si erano mossi, e non si sarebbero mai mossi, per una causa che non fosse quella della loro indipendenza.
Gli intrighi di casa Savoia (contro la volontà dello stesso Garibaldi e dello stesso Crispi) portarono al plebiscito, falsificato come tutti i plebisciti.
«Fu», scrisse nel suo Catechismo politico – economico popolare il vecchio patriota Pasquale Calvi, Primo Presidente della Corte di Cassazione di Firenze, «l’atto più spudorato e sleale che potesse commettersi da un governo».
L’unione significò questo per noi: che, mentre prima la capitale era a Napoli, ora fu più lontana ancora, non importa se a Torino, a Firenze o a Roma.
Col 1860, con questa seconda unione all’Italia, ricominciò il nostro calvario di lacrime e di sangue; un calvario che non avrà fine se non quando la Sicilia avrà riconquistato la sua indipendenza.
TRATTAMENTO FATTO ALLA SICILIA
IN OTTANTA ANNI DI UNITÀ ITALIANA
La Sicilia non si era mossa, nel 1860. O, se si mosse, dove si mosse, non fu certo nel senso unitario voluto dai piemontesi. Fu per proclamare una Sicilia indipendente, repubblicana, nella quale la povera gente potesse vivere in pace senza essere sfruttata da nessuno.
Ma questi movimenti non potevano piacere. E così, prima ancora che terminasse il 1860, Bixio, mandato da Garibaldi, dovette correre a Bronte e in molti altri paesi, con truppe non siciliane, per domare la vera, autentica rivoluzione siciliana che incominciava.
A Bronte fece fucilare cinque persone. Altrove, dippiù. Impose taglie e multe alla popolazione, che cercò di atterrire in tutti i modi. «Missione maledetta», confessò più tardi lo stesso Bixio, «alla quale un uomo della mia natura non dovrebbe mai esser mandato!»
Poi gli italiani scesero in Sicilia. Luogotenenti, Commissari civili, stati d’assedio e altre misure eccezionali imperversarono in Sicilia a partire dall’unificazione.
Il primo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia nel 1862; ed esso, come disse Crispi, lasciò terribili traccie.
Nell’anno seguente, si ebbe di fatto il secondo stato d’assedio con la missione del generale Govone il quale apertamente violò le leggi dello Stato.
Sotto il generale Govone, per combattere i renitenti alla leva, i Comuni siciliani venivano cinti da cordoni militari o presi addirittura d’assalto; senza mandato di cattura venivano arrestati sindaci e consiglieri comunali; venivano presi ostaggi, comprese le donne incinte, una delle quali (Benedetta Rini, di Alcamo), quasi al termine della gravidanza, morì in carcere dopo quattro giorni di convulsioni.
Fu persino applicata la pena dell’acqua!
E quanti innocenti furono martoriati! Un disgraziato operaio, Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, venne sottoposto alla tortura nell’Ospedale Militare di Palermo, come se fingesse d’esser muto e sordo per sottrarsi al servizio militare: sul suo cadavere si poterono contare 154 bruciature fatte col ferro rovente!
Tutti questi sono fatti. Fatti documentati. Basta sfogliare il libro di Zingali: Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia, volume primo, da pagina 232 in poi: ci troverete questo ed altro! E non è un separatista che scrive, badate, ma un fascista il quale è stato persino segretario federale!
Nel 1866 la pazienza finì. Il popolo di Palermo si ribellò come un sol uomo.
«Una masnada di ladroni ha governato per sei dolorosissimi anni la patria nostra. Una masnada di uomini feroci la ha insanguinata»: così incominciava il proclama rivoluzionario del 1866.
Nella città e nella provincia di Palermo, la rivoluzione assunse, dal 16 al 22 settembre, proporzioni tali, da costringere il governo ad inviarvi sollecitamente, con la qualità di Regio Commissario, il generale Raffaele Cadorna, alla testa di due divisioni di fanteria, un reggimento di cavalleria ed una brigata di artiglieria.
E vinsero loro, i ladri e gli assassini del popolo. Fucilarono senza processo migliaia di cittadini. Mentre invece gli insorti siciliani, che avevano preso prigionieri duemila soldati, non avevano ad essi toccato un capello.
«Repressa la rivolta e ristabilito l’ordine, le cose continuarono come prima. Non una legge fu votata, non un provvedimento fu preso per portare qualche rimedio ai mali esistenti, che andavano continuamente aggravandosi». Sapete chi scrive queste parole? Non un separatista; ma quei bravi fascisti, unitari, Libertini e Paladino, a pagina 752 della loro Storia di Sicilia pubblicata appena dieci anni fa.
Nel 1875 le cose continuavano a peggiorare. Il governo italiano propose misure eccezionali di polizia contro la Sicilia. I deputati siciliani insorsero. Ascoltate quel che disse Paolo Paternostro:
«Voi parlate delle condizioni eccezionali in cui si trova la Sicilia, del malcontento che vi regna. Ma, domando io, voi cosa avete fatto per la Sicilia? Cosa ha fatto il governo? Nulla. O tutto il contrario di quel che doveva.
Se voi date un’occhiata a tutti i servizi della Sicilia, a tutte le amministrazioni, voi troverete che dappertutto, e sempre, il governo si è condotto male.
Sceglierò qualche esempio.
Sapete voi come è stata trattata la magistratura in Sicilia?
Quando ci sono stati dei pretori che non hanno voluto secondare gli ordini dell’autorità politica, sono stati minacciati, talvolta traslocati.
E dei nostri impiegati (altro esempio) che cosa ne avete fatto? Ve lo dirò in due parole.
Quando voi spedite in Sicilia qualcuno, voi fate supporre che lo mandate per castigo, come se lo mandaste in esilio, e gli dite: – Andate laggiù, andate in Sicilia; poi, se vi comporterete bene, se sarete zelante, allora provvederemo.
Questi signori vanno laggiù coll’idea di trovarsi in mezzo a gente che non valga la pena di dover rispettare come tutto il resto d’Italia; e fanno dello zelo eccessivo; e diventano spesso agenti provocatori; ed accrescono il malcontento.
E dei nostri impiegati di laggiù, degli impiegati siciliani, che cosa ne avete fatto? Dei piccoli impiegati, soprattutto?
Perché a un vostro prefetto è saltato in capo di fare un rapporto più o meno insolente e offensivo per la Sicilia, voi credete sul serio che molti disordini si debbano alla così detta mafia, che si sarebbe infiltrata tra gli impiegati, e … botte da orbo, traslocazioni, sbalzando gente con uno stipendio di fame in lontani paesi, senza neanche indennità di viaggio, spostando e rovinando tutti i loro interessi.
Che ne avete fatto delle nostre ferrovie? E delle nostre strade obbligatorie? E dei beni dei Gesuiti e dei Liguorini, che erano destinati alla pubblica istruzione?
Nelle nostre amministrazioni non c’è che il disordine, il caos. E le popolazioni si abituano a pensare e a dire: – Ma questo non è un governo; le imposte se le fanno pagare; il fiscalismo ci perseguita sotto tutte le forme, ci assedia e ci tortura; ma quando si tratta di amministrare, amministrazione non ce n’è.
Che cosa si fa? Si ricorre a mezzi eccezionali di polizia, si ricorre al governo militare, invece di migliorare economicamente il paese!»
Ecco quel che gridò in Parlamento il deputato siciliano Paolo Paternostro. Le sue parole sembrano scritte oggi. E tutti noi siciliani, oggi, potremmo gridarle al governo fascista. Ma del governo fascista parleremo tra poco.
Dopo Paternostro parlò, nello stesso senso, Colonna di Cesarò. Poi Diego Tajani. Quest’uomo, patriota, esule e volontario delle guerre d’indipendenza, era stato dopo il 1860 Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Palermo. E poiché era un uomo onesto e senza paura, aveva sentito il dovere di spiccare mandato di cattura contro il questore di Palermo, e di mettere sotto processo il prefetto di Palermo, colpevoli ambedue di abominevoli abusi. Il governo, naturalmente, si era messo contro di lui. Egli aveva dato subito le dimissioni chiudendosi in uno sdegnoso silenzio.
Eletto deputato, fu più tardi per due volte Ministro di Grazie e Giustizia. Orbene, quando vide che la Sicilia veniva nuovamente provocata e calunniata, Diego Tajani non seppe più tacere.
Per due giorni, innanzi al Parlamento esterrefatto, espose l’una dopo l’altra tutte le ingiustizie, le canagliate, le infamie di cui il governo italiano si era macchiato: stupenda requisitoria che tutti i siciliani dovrebbero imparare a memoria!
Concluse con questo avvertimento solenne: «ricordatevi che la Sicilia è un’isola, e le isole si considerano come qualcosa di distaccato, di autonomo!»
Parole sprecate! La legge contro la Sicilia fu approvata. E nuove violenze si abbatterono sulla nostra disgraziata patria.
La Sicilia è stata sempre considerata come terra nemica, terra conquistata, da conservare con la forza. Per questo motivo, nel 1875, si tenevano in Sicilia ventitré battaglioni di fanteria e bersaglieri; due squadroni di cavalleria; quattro plotoni di bersaglieri montati; 3.130 carabinieri e numerose altre forze sussidiare, fra le quali principalmente guardie di pubblica sicurezza e guardie a cavallo!
Si giunse così ai Fasci siciliani dei lavoratori, fondati e diretti da Giuseppe De Felice. Che cosa voleva la Sicilia nel 1893-94? Quel che ha sempre voluto: giustizia e libertà.
Il governo, presieduto da Giolitti, riversò nell’isola una moltitudine di soldati, i quali non fecero che accrescere il malumore del popolo.
L’inevitabile accadde: sul principio del 1893, uno scontro ebbe luogo a Caltavuturo tra la folla e la truppa. La truppa osò sparare sui pacifici paesani, un gran numero dei quali rimasero uccisi.
Promise Giolitti di far aprire un’inchiesta contro i militari che avevano aperto il fuoco; ma non mantenne. Al contrario, durante l’intero anno, lasciò che la polizia e l’esercito si abbandonassero a tutti gli eccessi: nelle giornate di dicembre, che furono particolarmente accanite, più di 200 siciliani vennero uccisi, mentre la forza pubblica ebbe un solo morto.
Vedendosi assassinati, i siciliani insorsero dappertutto. Ruppero fili telegrafici; incendiarono municipi, preture, esattorie, uffici del registro e del catasto, agenzie delle imposte, archivi notarili, casotti daziari; liberarono i carcerati; tentarono di disarmare carabinieri e soldati.
A questo punto, il Re concepì la mostruosa idea di affidare a un siciliano la repressione del movimento siciliano. Crispi accettò la parte di Caino.
Proclamò lo stato d’assedio; e nominò Commissario straordinario con pieni poteri il generale Morra di Lavriano, che pochi giorni prima aveva mandato a Palermo come prefetto.
Venne richiamata alle armi la classe del 1869; e più di 40.000 uomini vennero sbarcati in Sicilia. I capi del movimento furono gettati in carcere: e primo fra tutti De Felice che, essendo deputato, non poteva neppure essere arrestato senza l’autorizzazione della Camera. I Fasci siciliani dei lavoratori (che erano ormai 166 con 300.000 associati) furono sciolti e le loro sedi occupate militarmente. Proibiti gli assembramenti e le riunioni. Istituita la censura.
Per più di sette mesi la Sicilia fu sottoposta alla legge marziale. Gli arresti si facevano senza bisogno di prove. E le condanne venivano appioppate, il più delle volte, senza che gli accusati potessero neppure difendersi.
Le accuse, del tutto immaginarie. «Avere cooperato alla emancipazione materiale e morale dei lavoratori» era un reato severamente represso!
Nel giugno 1894, più di 1.800 siciliani erano stati già condannati al domicilio coatto. Molti, a pene più gravi. De Felice a 18 anni di carcere. Bosco, Barbato e Verro a 12 anni.
Alla Camera dei Deputati, Felice Cavallotti dichiarò che il governo aveva violato le leggi e lo stesso Statuto. Poi prese la parola Matteo Renato Imbriani:
«Voi», disse rivolto a Crispi, «avete stracciato ad una ad una tutte le pagine dello Statuto. Avete fatto scempio di tutte le nostre libertà …
Ci sono molti che dicono: – i Borboni bombardavano. – Ma bombardavano quando una città era in piena ribellione. Ma i Borboni non hanno mai fatto tirare sopra folle inermi ed affamate …»
La Sicilia elesse deputati De Felice, Bosco e Barbato, che languivano in carcere. L’elezione, si capisce, venne annullata.
Così continuarono le cose, male sempre, fino alla guerra.
Dal 1915 al 1918 anche e soprattutto in Sicilia i contadini e gli artigiani, i professionisti e gli studenti vennero strappati dalle loro case e mandati al macello.
Ma quando la guerra finì, chiedemmo la resa dei conti. E l’avremmo ottenuta, perdio! se questo miserabile governo fascista non avesse rinnovato un sistema di poliziesca tirannide sopprimendo le ultime libertà e raddoppiando le nostre catene.
LA TIRANNIDE FASCISTA
HA RITARDATO LA RESA DEI CONTI
Non è una esagerazione dire che, nel 1919, la Sicilia domandò la resa dei conti. Era tempo che si facessero i conti!
Già nel 1900 era accaduto un fatto che nessuno si aspettava. Un professore d’università, esaminando i bilanci dello Stato, aveva scoperto come la Sicilia era stata truffata e sfruttata dal governo italiano.
Egli ebbe il coraggio di dire alta la verità, in un libro che ha per titolo Il bilancio dello stato dal 1862 al 1897, e che poi fu di nuovo pubblicato col titolo Nord e Sud.
Ebbene, egli disse che nel 1850 il Piemonte era indebitato fino ai capelli, imponeva tasse enormi e tuttavia il suo bilancio restava sempre in deficit. Annettendosi la Sicilia, il Piemonte riversò sulle spalle dei siciliani i suoi debiti, le sue tasse e il suo deficit annuo.
Disse che dal 1860 al 1900 la Sicilia aveva pagato ogni anno (in proporzione della propria ricchezza) più tasse del resto d’Italia.
Disse che dal 1862 il governo italiano si mise a vendere le terre formanti il demanio antico, terre siciliane, dalla cui vendita ricavò 370 milioni!
Disse che dal 1866 il governo italiano cominciò a vendere anche i beni ecclesiastici, che erano ricchissimi in Sicilia, e da questa vendita ricavò più di 600 milioni!
E di tutti questi milioni nemmeno un soldo è stato speso a vantaggio della Sicilia.
Ecco quel che disse Francesco Saverio Nitti. Giacché era proprio lui lo scienziato leale e giusto di cui parliamo! Ed essendo leale e giusto, ha dovuto subire le persecuzioni del governo fascista.
Nitti non era separatista; e nemmeno era Siciliano. Fu Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo la guerra. Nitti diceva la verità.
Né era separatista Ettore Ciccotti che nel 1904 denunziava la speculazione bancaria fatta dal governo, «una speculazione poggiata sul vuoto e che assume le forme di una vera e colossale truffa ai danni della Sicilia». E aggiungeva: i disgraziati emigranti siciliani pagarono i debiti che il Piemonte aveva contratto prima dell’unità italiana!
Né era separatista, anzi era uno sfegatato monarchico, Giustino Fortunato, il quale nel 1916 scriveva: «i milioni dati in premio ad un gran numero di fabbriche e di cantieri dell’Alta Italia sono estorti nella massima parte alle povere moltitudini del mezzogiorno».
Terminata la guerra, dunque, si venne ai conti.
II 5 Dicembre 1919 Si apre la grande offensiva parlamentare: l’on. Colajanni interpella il Ministro dell’Interno «sulla necessità ed urgenza di risolvere il problema del latifondo».
Alcuni giorni dopo, trentacinque deputati siciliani protestano per le condizioni disastrose e intollerabili del servizio ferroviario in Sicilia, tali da determinare un profondo turbamento nell’economia dell’isola.
Il 27 Gennaio 1921 l’onorevole Abisso lamenta il disservizio ferroviario «unicamente inteso a tormentare i viaggiatori, intralciare il commercio e comprimere ogni normale sviluppo di vita civile»; disservizio, aggiunge l’onorevole D’Ayala il giorno dopo, «che ormai supera i limiti di ogni sopportabilità». E l’on. Di Cesarò rivela la scandalosa e sistematica depredazione dei bagagli di cui è vittima ogni viaggiatore che dalla Sicilia vada in continente o dal continente venga in Sicilia; ma le autorità ferroviarie si rifiutano di rilasciare ai viaggiatori assicurati i verbali di constatazione di furto!
Il 27 Marzo 1922 l’on. Cuomo domanda perché viene destinato al Mezzogiorno «il peggiore materiale di tutta la rete ferroviaria, il rifiuto e lo scarto delle altre linee».
Nel 1921 l’on. Lombardo Pellegrino reclama provvedimenti a favore della Sicilia: «la più negletta delle regioni meridionali». E l’on. Cigna spiega che il governo non risolve il problema meridionale perché gli fa comodo tenerlo insoluto.
Nel Febbraio del 1921 l’on. Fulci insorge contro le luride baracche che a Messina ospitano le scuole e aggiunge che, per di più, esse sono così insufficienti da dover fare quattro turni, in modo che i ragazzi stanno in classe soltanto per due ore al giorno.
II 15 Maggio 1922 l’on. Pucci racconta alla Camera: «Il Ministro delle Finanze ha creato a Palermo un ufficio per le trazzere siciliane. È un ufficio con un ingegnere che ha il solo tavolo e da parecchi anni non ha fatto proprio nulla. Ed io, che qualche volta mi sono rivolto a lui per certe vertenze relative alle trazzere, mi sono sentito rispondere: – Non ho che il tavolo e non ho nulla da farvi!» In quello stesso Maggio l’on. Valentini urla: «Nelle vostre contrade si dice: Ma quel governo il quale per tanti anni non ha saputo risolvere il problema delle bonifiche, non ha curato di regolare i torrenti che impaludano la terra sottraendola alle colture, quel governo che non ci ha dato l’acqua, che non ci ha dato i bacini montani, che non ci ha dato le strade, che insomma non ci ha dato i mezzi per la vita civile, ci viene ora a parlare di trasformazione del latifondo e di colonizzazione interna?»
Queste erano le parole che venivano urlate in Parlamento prima che Mussolini mettesse la museruola ai vili e mandasse i coraggiosi in carcere o al confino!
E non soltanto alla Camera si urlava. Ma anche fuori. Sui giornali, in piazza, dovunque.
Manfredi De Franchis si faceva promotore a Palermo di un Comitato d’azione autonomista.
Antonino Pipitone Cannone fondava una rivista, La regione, in cui propugnava gli interessi dell’isola.
Consoli, sindaco di Trecastagni, pubblicava un giornale, La Sicilia dei Siciliani, e organizzava un movimento, detto dell’Unione siciliana, «per protestare contro le tasse ingiuste e i generi alimentari inquinati, per liberare la Sicilia dai ladri, dai truffatori, dagli sfruttatori, e far rinascere in noi isolani la nostra fierezza, i nostri diritti, la nostra ricchezza!»
Enrico Messineo dirigeva un quindicinale dal titolo Sicilia Nuova, «organo autonomista siciliano», al quale collaboravano le migliori penne siciliane e dalle cui colonne Lucio Tasca Bordonaro lanciò il guanto di sfida: «Io rivendico», scrisse, «al popolo di Sicilia l’onore di aver conservato nell’animo la fiamma secolare dell’indipendenza!»
Ecco quel che si preparava. Per incominciare, intanto, nella seduta del 9 agosto 1921, il Consiglio provinciale di Caltanissetta, deliberando a voti unanimi, chiese l’indipendenza doganale della Sicilia!
Ma nel 1922 il fascismo ebbe il potere. Con questo risultato: che la resa dei conti fu rinviata di vent’anni.
VENT’ANNI DI MAL GOVERNO FASCISTA
Che cosa potevamo aspettarci di buono da un governo come quello di Mussolini che ha calpestato e rovinato tutto il popolo italiano?
E che cosa potevamo aspettarci in particolare noi siciliani, quando il maestro e l’ispiratore di Mussolini, Alfredo Oriani, non si era vergognato di definire la Sicilia: «Cancro al piede d’Italia; provincia nella quale né costumi né leggi civili sono possibili»?
Che cosa potevamo aspettarci da un uomo con simili idee?
Prima ancora di arrivare al governo i fascisti incominciarono a vessare il popolo siciliano con incendi, devastazioni, batoste e assassinii. Distrussero le leghe dei contadini, le cooperative operaie, le camere del lavoro, le case del popolo, i circoli democratici, repubblicani e socialisti, tutte insomma le organizzazioni esistenti nei nostri paesi e nelle nostre città.
È forse necessario che io ricordi ai siciliani le sopraffazioni di questi ultimi vent’anni?
Occorre ricordare come ci hanno schiacciati sotto una montagna di tasse? Non erano due mesi che stava al governo, e già Mussolini, con un decreto, applica l’imposta di ricchezza mobile ai salari e alle mercedi giornaliere degli operai. Ecco l’amico della povera gente! Qualche giorno dopo, altro decreto per la revisione generale degli estimi fondiari: il reddito imponibile in Sicilia, da 48 milioni, viene improvvisamente aumentato a 127 milioni! Il 4 gennaio 1923, nuova tassa sui redditi agrari! Nello stesso 1923 altra nuova tassa: l’imposta complementare sul reddito, per la quale la Sicilia paga già nel 1926 sei milioni all’anno, nel 1930 dodici milioni all’anno! E questi non sono che i primi passi del malgoverno fascista!
Occorre che ricordi la prepotenza del prefetto Mori, questo losco poliziotto che per più anni terrorizzò tutta l’isola? Col pretesto di distruggere la mafia, egli distrusse invece la pace, la libertà e l’onore di innumerevoli galantuomini. Imbastì colossali processi in cui gli innocenti vennero condannati a centinaia; o, assolti dai magistrati, vennero dal prefetto mandati al confino. Ma i magistrati dovevano condannare; il Procuratore Generale Giampietro (manutengolo della Questura, al quale Diego Tajani, se fosse potuto uscire dalla tomba, avrebbe sputato in faccia) costringeva a condannare: egli rimandava indietro alla sezione d’ accusa tutti i processi che contenessero qualche assoluzione.
Gli abusi furono tali e tanti, che il generale Di Giorgio, siciliano e niente affatto separatista (era stato Ministro della Guerra di Mussolini), corse a Roma e protestò presso Mussolini in norne della Sicilia offesa.
Mussolini, naturalmente, diede ragione ai suoi sbirri e torto a lui: poiché non era la mafia, no, che si voleva distruggere; bensì lo spirito di libertà del popolo siciliano, spezzandogli la schiena! E appena ebbe capito questo, il generale Di Giorgio dimissionò da tutte le cariche, vendette tutti i suoi beni ed emigrò in Inghilterra.
Gli abusi furono tali e tanti che, alcuni anni dopo, Vittorio Ambrosini iniziò una campagna per la revisione di quei processi, affinché giustizia fosse compiuta, benché tardi, e il danno morale fatto agli innocenti venisse riparato. Ma, come è naturale, non ottenne nulla!
Occorre che ricordi la lista dei prefetti e segretari federali, questori e commissari mandati dal continente, come tanti governatori, a tiranneggiarci in questi vent’anni?
Occorre che dica che il professor Frisella Vella fu obbligato a cambiare il titolo della sua innocentissima rivista Problemi siciliani in Problemi mediterranei, perché della Sicilia e dei suoi problemi non doveva farsi neppure il nome?
E vennero cambiati i nomi delle strade e delle piazze, affinché nessuna fosse intitolata, per esempio, a Felice Cavallotti che aveva difeso il popolo siciliano contro i suoi carnefici; o, per esempio, a Mario Rapisardi che aveva cantato la libertà del popolo e bollato d’infamia gli oppressori: anzi, si arrivò al punto che, nel 1934, dall’università di Catania venne fatta scomparire la lapide a Rapisardi, dettata da Arturo Graf, che terminava: «Flagellatore implacabile di ogni ingiustizia, viltà o menzogna, visse intemerato, morì da forte; esempio, rimprovero, ammonimento ai contemporanei e ai posteri». E dire che Rapisardi era catanese! Fu il più grande poeta che abbia dato la Sicilia!
Occorre che dica come persino un deputato fascista, il duca Ugo Parodi Giusino di Belsito, quand’ebbe bisogno di conferire con Mussolini per esporgli le gravi difficoltà della nostra isola (si trattava del consorzio di bonifica della valle del Belice) dopo due mesi si sentì rispondere che il Duce non aveva tempo e che parlasse col Ministro? Non aveva tempo per la Sicilia, certo! Ma lo aveva per le sue amanti! Lo aveva per i suoi cavalli!
La principessa di Gangi fu più fortunata. Essa venne ricevuta, un giorno, da Mussolini. Con la fierezza con cui sanno parlare le nostre donne, gli disse in faccia che non riusciva più a pagare le tasse. La ricchissima principessa di Ganci, capite, non riusciva più a pagare le tasse! E Mussolini se ne fece una risata: – Cambi amministratore – le disse, per tutta risposta. Ma ride bene chi ride l’ultimo.
Occorre che dica che ci sono voluti quindici anni prima che Mussolini si accorgesse che in Sicilia ci sono Comuni senz’acqua, senza fogne, senza luce e senza strade? E si degnasse di venire a fare a Palermo quel ridicolo discorso: la Sicilia, centro geografico dell’impero (dell’impero della fame, certo!); la Sicilia, fascista sino al midollo; e per la Sicilia doveva cominciare ora l’epoca più felice della sua storia!
Invece, è cominciato questo: che il fascismo ha moltiplicato gli insulti, le beffe e le angherie!
Non dico con quali criteri assurdi e pulcinelleschi è stata condotta la cosiddetta redenzione del latifondo. Sperava forse in questo modo di legare a sé le classi lavoratrici? Ma i nostri contadini e i nostri pastori, signor Mussolini, non sono degli imbecilli! Hanno le scarpe grosse, ma il cervello fino! Dopo essersi visto
strappare con gli ammassi il frumento e l’olio, la lana e persino il bestiame, hanno ben capito che anche la bonifica del latifondo è un trucco: uno dei soliti imbrogli del governo per riempire le tasche ai suoi lacchè!
Guardate, brava gente in camicia nera, come è stata trattata la Sicilia dal governo fascista: In tutto il continente sono state elettrificatele ferrovie, ma in Sicilia no! In tutto il continente ci sono i doppi binari, ma in Sicilia ce n’è ancora uno solo! E i treni, in Sicilia, sono ancora quelli del secolo scorso, pieni di cimici e di pidocchi, treni che farebbero ridere, se non ci fosse da piangere! E nelle vetture dei treni, in Sicilia, spesso c’è scritto: per le linee sicule. Certamente sono le migliori vetture, quelle che vengono mandate in Sicilia!
E le strade di campagna dove sono? Per spostarci da un podere ad un altro, noi siciliani camminiamo ancora sulle trazzere costruite un secolo fa dai Borboni. Su quelle camminiamo! Un secolo di abbandoni e di usurpazioni non è bastato ancora a distruggerle! Ma a Mussolini i duemila chilometri di strade che abbiamo in Sicilia sono sembrati troppi. Ed ha preferito andare a costruirne altri quattromila in Etiopia coi nostri soldi, affinché se li godesse il Negus!
E intanto le tasse si sono inasprite a vista d’occhio. Ma quali sono le grandi opere pubbliche del regime fascista? II porto di Palermo, forse, fatto in una maniera così disgraziata che i grandi piroscafi non possono neppure entrarvi? Ovvero il porto di Catania di cui una intera diga venne inghiottita dalle acque al primo fortunale, tanto era ben costruita?
Ed ora ci hanno trascinato in guerra. Perché? Che cosa importa a noi dei giapponesi e dei tedeschi? Che cosa importa alla Sicilia della guerra di Mussolini?
Il popolo Siciliano è un popolo eroico, sì, ma non è un popolo guerriero. È un popolo laborioso e pacifico. Ora gli tocca di combattere (perché a Mussolini piace così) in Africa, in Grecia, in Russia. Già 80.000 siciliani, tra morti e feriti, hanno versato il loro sangue per l’ambizione di quest’uomo!
E il denaro dello Stato ormai non vale quasi nulla! Se ne stampa giorno e notte! Siamo tutti rovinati! Ci stano facendo morire di fame, noi e i nostri bambini!
Mussolini ha mandato i tedeschi nell’isola: hanno occupato d’autorità i migliori alberghi, i più bei palazzi, le più comode ville; si sono installati dovunque da padroni; comprano ogni cosa col nostro danaro; mangiano a due ganasce tutto ciò che è nostro; si ubriacano; violentano, quando possono, le nostre donne.
Lo sappiamo bene chi sono i tedeschi, dal giorno in cui l’imperatore Enrico VI fece man bassa dei migliori gioielli del palazzo reale di Palermo, che vennero caricati su 150 bestie da soma e trasportati in Germania!
E la Sicilia, con o senza i tedeschi viene abbandonata ai bombardamenti. Perché il governo non ha pensato prima alla difesa antiaerea, ai rifugi, alle maschere, allo sfollamento? Perché ha fatto la guerra se non era preparato?
E come se tutto ciò non bastasse, ci voleva un’ultima lazzaronata: ad un certo momento, Mussolini dà l’ordine che tutti i funzionari siciliani vengano immediatamente trasferiti fuori di Sicilia e sostituiti con funzionari del continente.
Perché? Te ne sei finalmente accorto che la Sicilia non è affatto «fascista fino al midollo»? Che la Sicilia accoglierebbe a braccia aperte e bandiere spiegate gli inglesi, gli americani e chiunque altro volesse aiutarci a riconquistare la nostra libertà e la nostra indipendenza?
Ebbene, quest’ordine inaudito di Mussolini è stato eseguito. In tempo di guerra, capite, la maggior parte dei funzionari siciliani han dovuto abbandonare famiglia, casa, interessi e patria, sbattuti nei posti più lontani e più disagiati!
Ecco come ci ha trattati il fascismo!
Ma i siciliani – si dirà – perché non hanno protestato?
E come potevano protestare 4 milioni di siciliani, quando 40 milioni di italiani non potevano fiatare sotto questo governo di delinquenti?
I siciliani protestarono finché poterono e con tutti i mezzi a loro disposizione.
Dimenticate forse la campagna condotta da più d’uno dei nostri giornali? Rileggete, per esempio, il foglio catanese Sicilia Socialista. Nel 1923 pubblicava questo messaggio di Giacomo Matteotti:
«Siciliani, la vostra terra che, unendosi all’Italia, aveva sperato di veder cessare i regimi personali e assolutisti; la vostra terra che già nel ’94 aveva scosso per prima il giogo di un regime impopolare; vede oggi rifiorire l’arbitrio poliziesco secondo gli ordini che piovono da Roma.
I fascisti non si accorgono che, in una terra come la vostra, ogni soperchieria e ogni violazione dei diritti dei cittadini, aumentano lo spirito di libertà e preparano la resurrezione.
Invano essi ripeteranno al popolo siciliano l’eterna promessa di tutti i governanti: di benefici, di lavori, di commerci.
Invano essi ripeteranno la coreografia dei ricevimenti ufficiali e degli entusiasmi preparati.
Il primo pane dell’uomo civile è oggi la libertà e la giustizia. Queste ci hanno negate. Queste noi dobbiamo conquistare!»
Un anno dopo, l’on. Matteotti veniva assassinato dai fascisti, per volontà di Mussolini, in un’automobile della Direzione generale di pubblica sicurezza. Leggete quel che scrivevano, allora, i quotidiani siciliani! Non erano forse tutti all’opposizione?
Nel 1924 Gaspare Nicotri, pronunziando a Palermo un coraggioso discorso, terminava col grido di Filippo Turati: Date la libertà alla Sicilia! Questo discorso venne poi pubblicato sotto il titolo Il primato della Sicilia nelle libertà costituzionali.
In quello stesso 1924, sul foglio torinese La rivoluzione liberale, Gaetano Navarra Crimi scriveva: «In Sicilia tutto è da farsi. Lo Stato non cura la legislazione operaia se non quando ve lo costringono i tumulti di piazza, sempre soffocati, mai prevenuti. Lo Stato non ha mai promosso un istituto che dia ai buoni operai siciliani la casa dove ristorino i corpi e rinfranchino le anime».
E nel 1925 ripubblicava nel volume Problemi dell’economia siciliana questo ed altri articoli, in uno dei quali si poteva leggere ad esempio:
«La Sicilia è la grande malata cui l’Italia rifiuta ostinatamente i farmaci necessari, perché, confinata com’è sotto la punta dello stivale, si ritiene forse non debba più esser buona a nulla».
E persino nel 1934 apparve un grosso volume intitolato La Sicilia, a cura di Arturo di Castelnuovo. Un libro pieno di stupide lodi verso Mussolini e il fascismo. Senza queste lodi, il libro non si sarebbe potuto pubblicare. Ma qua e là, dove meno te l’aspetti, la verità salta fuori e viene a smentire tutte quelle lodi usurpate.
Dalle prime pagine, in cui l’Accademico d’Italia Francesco Orestano scrive: «Tesaurizzatrice per eccellenza, la Sicilia ha conferito al risparmio nazionale somme ingentissime, che solo in assai piccola parte han trovato nell’isola il loro impiego, e sono state regolarmente stornate per fecondare altre regioni».
Alle ultime pagine, in cui Pipitone Cannone scrive: «I sette secoli di ininterrotta decadenza siciliana non sono riusciti a logorare e a infracidire le fibre della razza.
Il siciliano va annoverato tra i popoli che hanno dovuto cedere alle violenze della storia. Ma al fato storico non si è rassegnato, onde il fuoco del suo vulcano, non ancora spento, attende il momento dell’esplosione!»
E chi vuol capire, capisca.
Non è vero che il popolo siciliano abbia passivamente subìto. Il popolo siciliano ha reagito sempre a tutte le provocazioni.
Dalle elezioni amministrative di Palermo del 1925, nelle quali gli uomini politici palermitani si schierarono concordemente contro il fascismo; alla cospirazione separatista degli universitari e delle universitarie di Palermo, che, scoperti nel 1935, subirono la radiazione dal partito, l’espulsione dall’università, la degradazione nell’esercito, il confino ed il carcere; dal movimento detto del soldino, il solo movimento antifascista serio che vi sia stato in Italia, vero movimento di piazza, iniziato in Messina e capitanato dall’on. Ettore Lombardo Pellegrino (che ci perdette anche la cattedra universitaria); all’audacia di un proto che «per errore» il 3 dicembre 1942 pubblicò in prima pagina sul Popolo di Sicilia un grande ritratto di Mussolini, un ritratto proprio sinistro, con sotto, a caratteri cubitali, su tre colonne, queste parole: un diabolico responsabile della guerra; uno, dato che l’altro , come si sa, è Hitler (l’edizione fu sequestrata e modificata, ma già tutta Catania aveva potuto vederla): potete seriamente dire che la Sicilia sa rimasta passiva?
La Sicilia ha accumulato la sua bile repressa. Questo sì! Ed ora è veramente al limite della sua pazienza!
L’ora della liberazione si avvicina. L’ora della resa dei conti!
LA SICILIA BASTA A SE STESSA
E NON HA BISOGNO DI NESSUNO
Quello che abbiamo detto sin qui (ed altre cose moltissime potremmo aggiungere) dimostra che la Sicilia si è trovata male sotto qualunque governo che non fosse siciliano.
Si è trovata malissimo sotto il governo italiano. E si è trovata ancora peggio, peggio che mai, sotto il governo fascista.
Ascoltate quanto scrive, nel 1934, il professor Vito Cesare Piazza dell’università di Palermo, nel citato volume La Sicilia, a cura di Castelnuovo (pag. 513):
«La Sicilia è stata sempre abbandonata alle sue risorse dai governi di tutte le epoche; i quali anzi si sono sempre premurati a spogliarla quanto più è stato possibile. Basta percorrere la storia, non dico dei tempi passati, ma di questi ultimi due secoli, dal 1700 in poi, per averne una continua serie di esempi, sino a quelli recenti della soppressione dei beni ecclesiastici del 1866, sino all’assorbimento delle riserve auree del Banco di Sicilia, denaro appartenente al popolo siciliano»
Ora la Sicilia non vuole più essere spogliata. Vuole, pretende, esige che le venga restituito tutto ciò che le è stato rubato dal giorno dell’unione all’Italia (tenuto conto degli interessi maturati e del valore attuale della moneta, sono circa 124 miliardi di lire).
La Sicilia non può tollerare ladri che vengano a svaligiarci, né padroni che ci trattino con la frusta. Fuori!
La Sicilia è un paese ricco; basta a sé stessa.
Già prima della passata guerra, Bonaldo Stringher, che non era separatista e nemmeno era siciliano, ma era il direttore generale della Banca d’Italia, Ministro di Stato ecc. ecc., pubblicò un libro su Gli scambi con l’estero che concludeva:
«Possiamo affermare che la Sicilia concorre a compensare lo sbilancio del Regno nei pagamenti all’estero per una somma di circa 250 milioni all’anno. E poiché lo sbilancio della Nazione si aggira sui 1.100 milioni, la Sicilia concorre a colmarlo per quasi un quarto. Se si tien conto che il territorio e la popolazione della Sicilia sono di appena una decima parte di tutto il Regno, si vede subito quale ingente contributo essa porti nei pagamenti anzidetti!»
Ma ormai siamo stanchi di pagare i debiti e gli sbilanci altrui. Ne siamo proprio stufi!
Vogliamo godercele noi le nostre ricchezze! Il frutto del nostro lavoro e della nostra terra non deve mai più andare a finire nelle tasche altrui! La Sicilia ai siciliani!
Vi dimostro subito, con alcune cifre, quanto è grande la ricchezza della Sicilia. Sono cifre prese dal Calendario Atlante De Agostini del 1943, che tutti possono controllare. *
(* Si noti che queste cifre ufficiali sono sempre molto inferiori alla realtà: non vi sono inclusi, infatti, i prodotti consumati localmente dai produttori medesimi e nemmeno i prodotti che non vengono denunziati per timore del fisco.)
La Sicilia ha prodotto, nel 1940, 11 mila quintali di noci, 16 mila quintali di ciliegie, 20 mila quintali di fichi secchi, 22 mila quintali di mele, 35 mila quintali di castagne, 65 mila quintali di pere, cotogne e melograni, 80 mila quintali di pesche, albicocche e susine, 120 mila quintali di nocciuole, 430 mila quintali di mandorle!
Ha prodotto 40 mila quintali di fagiuoli, 80 mila quintali di agli e cipolle, 100 mila quintali di piselli, 160 mila quintali di carciofi, 230 mila quintali di poponi e melloni, 340 mila quintali di cardi, finocchi e sedani, 500 mila quintali di patate, 520 mila quintali di cavoli e cavolfiori, un milione e 700 mila quintali di pomodoro, più tre milioni di quintali di fave!
Ha prodotto 320 mila quintali di manderini, un milione e 800 mila quintali di arance, tre milioni di quintali di limoni, più di cinque milioni di quintali di uva e due milioni e mezzo di ettolitri di vino!
E, per conseguenza, ha prodotto, oltre a una quantità enorme di preziose essenze di gelsomino, 10 mila chilogrammi d’essenza di manderino, 20 mila chilogrammi d’essenza di arance amare e 150 mila chilogrammi d’essenza di arance dolci, 700 mila chilogrammi d’essenza di limone!
Ha prodotto 90 mila quintali d’olio, 300 mila quintali di avena, 560 mila quintali di orzo, nove milioni di quintali di frumento!
Ma queste cifre non soltanto sono enormi per sé stesse; ancora più grandi ci appaiono se riflettiamo a quelle del resto d’Italia.
La sola Sicilia, infatti, produce un terzo dell’orzo che produce tutto il resto dell’Italia. Produce metà delle mandorle che produce tutto il resto d’Italia. Produce più cavoli e cavolfiori, più fave, più nocciuole, più sughero, di quanto ne produca tutto il resto dell’Italia continentale. La nostra sola produzione di arance è il doppio di quella di tutto il resto d’Italia; la produzione di manderini, come anche la produzione di carrube, quattro volte più grande; la produzione di limoni, nove volte più grande.
E che cosa diventerebbero queste cifre se il governo centrale non cercasse di danneggiare e impoverire in tutti i modi la nostra produzione? I nostri prodotti agricoli, sfruttati da noi, renderebbero tesori. Ma il governo ci ostacola in tutti i modi.
VOGLIAMO LA SICILIA
LIBERA E INDIPENDENTE
Rileggiamo insieme le immortali pagine del Catechismo Siciliano scritto dal nostro grande Michele Amari:
«Perché i siciliani vogliono essere indipendenti?
Perché la ragione e la storia ci insegnano che tali debbono essere e che tali sono stati per molti secoli.
Come, per legge umana e divina, nessun uomo può legittimamente essere schiavo di un altro (né può mai prosperare qualora lo diventasse) così nessuna nazione può legittimamente essere serva di un’altra; e, se lo fosse, verrebbe avvilita, governata senza giustizia né umanità, aggravata di dazi per l’utile non proprio, ma dei suoi padroni, straziata da leggi fatte a questo medesimo scopo, quindi sarebbe sempre povera, ignorante e disprezzata.
Ma come dimostrate che la Sicilia abbia una individualità a sé?
Iddio le stese d’ogni intorno i mari per separarla da tutt’altra terra e difenderla dai suoi nemici. La fece così grande di estensione, temperata di clima, fertile di suolo, da bastare non soltanto alla vita di più milioni di uomini, ma anche ai comodi, al lusso, ad ogni godimento, ad ogni industria, ad ogni commercio.
Ma come rispondete a quelli che oppongono che, essendo mutate le circostanze politiche d’Europa, per la fusione dei piccoli nei grandi Stati, la Sicilia non potrebbe più sostenersi da sé?
In primo luogo è da considerare che la Sicilia, per la sua grandezza e per la natura montuosa del territorio e per la fierezza degli abitanti, non è un’isola facile a conquistare.
Secondo: è un fatto, in politica, che gli Stati piccoli si mantengono per la gelosia reciproca dei grandi, nessuno dei quali permetterebbe a un altro di ingrandirsi con la conquista a spese dei piccoli Stati. Diversamente non esisterebbe la libera Svizzera che ha meno di due milioni di abitanti; né la libera Grecia che ne ha solo un milione: mentre la Sicilia ne ha più di due milioni! Se la perfezione politica di uno Stato consistesse nella grandezza, la Russia e la Cina sarebbero gli Stati più felici del mondo!»
Così scriveva, più d’un secolo fa, Michele Amari. Oggi, queste parole sono doppiamente vere. Oggi la Sicilia ha quattro milioni di abitanti, pronti e decisi a vendicare le antiche e le recenti offese, pronti e decisi a ottenere l’indipendenza dal resto d’Italia.
Non si può più continuare come per il passato. Per noi siciliani, è questione di vita o di morte. Separarci o morire!
Sonnino, che non era né separatista né siciliano, ma che fu anzi più volte Ministro e due volte Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, ha scritto queste sacrosante parole:
«Quel che trovammo nel 1860 dura ancora. La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari; e ce l’assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione e l’immensa ricchezza delle sue risorse. Ma noi italiani delle altre provincie impediamo che tutto ciò avvenga; abbiamo legalizzato l’oppressione esistente; ed assicurato l’impunità all’oppressore!»
Se questo poteva scrivere Sonnino, quanto più terribile e amara è la verità! Noi siciliani siamo stati considerati sempre come la feccia dell’umanità, buoni soltanto a pulire gli stivali dei signori venuti dal continente!
E non si creda che domani, con un regime migliore, più liberale, più umano, possano accomodarsi i nostri guai! Credere ciò sarebbe un gravissimo errore.
Innanzitutto, nessun governo, per generoso che sia, ci restituirà mai (se non costrettovi dalla forza) quel che ci è stato rubato in ottanta anni. E se pure ne avesse l’intenzione, verrebbe cacciato via dagli stessi italiani prima di compiere quest’atto di giustizia e di riparazione.
In secondo luogo, l’incomprensione tra la Sicilia e il continente non deriva dalla cattiva volontà degli uomini. Deriva dalla situazione, per cui sono state unite regioni che dovevano stare separate. Deriva dal contrasto degli interessi.
L’industria siciliana danneggerebbe l’industria continentale: questo è certo. La nostra floridezza andrebbe a tutto scapito della floridezza dei nostri sfruttatori.
Perciò la Sicilia non può e non potrà mai vivere d’accordo col continente italiano.
Soltanto degli ingenui possono sperare in un avvenire migliore, pur persistendo nell’unione con l’Italia. E si illudono che forse qualche siciliano potrebbe andare al governo d’Italia …
Sciagurati! Quante volte i siciliani sono andati al governo, da Crispi a Orlando, che bene ne ha veduto mai la Sicilia?
Giuseppe Santoro, nel citato volume a cura di Castelnuovo, ha scritto queste giuste parole: «La circostanza più grave è che la Sicilia è stata maggiormente trascurata da quegli stessi suoi figli che pervennero ai più alti fastigi del potere e del sapere».
Perché? – mi chiedete. Ma per una ragione evidentissima! Il continente è molto più forte della Sicilia. Quindi il governo viene nominato o mandato a casa dal continente. Ora, come potete immaginare che il continente chiami al governo uno che anteponga la Sicilia al continente?
Se qualche siciliano va al governo, o è un nemico dichiarato della Sicilia, come Crispi, o è un’anima buona, incapace di imporsi, come Orlando. Ma più spesso è un aguzzino come Crispi, che manda in galera i suoi fratelli! Sapete che cosa disse Crispi, nel ’94, al principe di Scalea, mentre De Felice per aver amato la Sicilia stava in carcere (dietro ordine dello stesso Crispi)? Disse: «In galera deve morire questo Cagliostro!»
E come volete che vada al governo un vero amico della Sicilia? Forse De Felice c’è mai stato? O forse Colajanni?
Ma Colajanni aveva pubblicato un libro, Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, nel quale Crispi era messo alla gogna ed erano invece rivendicati i diritti del popolo siciliano! Aveva pubblicato un libro, Settentrionali e meridionali, in cui sono elencati tutti gli insulti fatti fin allora dai continentali ai siciliani; leggete la pagina 36: «Ai mali politici, intellettuali e morali della Sicilia, i fratelli del settentrione hanno provveduto guardandola altezzosamente, trattandone gli abitanti brutalmente e sprezzantemente».
E Cavallotti scrisse a Carducci: «Vedi, Carducci, se Colajanni non avesse scritto quel libro straziante in cui svela di che lagrime grondi e di che sangue la storia dei moti siciliani e dell’opera di Crispi in Sicilia, il povero ed onesto Colajanni non sarebbe trattato da schifoso …»
E Nunzio Nasi non fu liquidato in malo modo perché «osò dire in pieno Parlamento che la Sicilia non è una colonia d’Italia»? Ecco il manifesto lanciato ai palermitani dal Comitato Pro Nasi nel 1907 mentre Nasi era in carcere sotto un’accusa infamante:
«Cittadini! La nuova violenza, proditoriamente perpetrata contro l’ex ministro Nasi, ha commosso vivamente la Sicilia tutta.
Pur essendo avvezzi allo spettacolo delle sopraffazioni contro la libertà e il diritto ai danni della Sicilia, non credevamo che si potesse giungere a tanto.
Mentre l’isola grida, assetata di giustizia, al suo grido si risponde con un nuovo attentato ai più intangibili diritti del popolo.
L’arresto di Nunzio Nasi, arbitrario ed illegale, è soprattutto mostruoso per il fine che lo ha mosso: dimostrare alla Sicilia che il suo desiderio di libertà, le sue agitazioni in difesa dei suoi diritti, sono quantità trascurabili: dimostrare che giustizia non ve ne può essere pei siciliani nel Regno d’Italia».
Così vengono trattati quei siciliani che si battono per la propria terra: vengono insultati, calunniati, tolti dalla circolazione, gettati in carcere, avviliti, distrutti, assassinati. Altro che andare al potere!
Nessun compromesso è possibile. Bisogna farla finita. Il momento favorevole si avvicina. Mai come ora nostri nemici del continente hanno ricevuto tante legnate; mai hanno subìto tante perdite; mai sono andati incontro a tanti disastri. Sembra che Dio voglia punirli di tutto il male che hanno fatto alla Sicilia.
Il momento di agire si avvicina, o siciliani!
Prepariamoci a vendicare i nostri fratelli che sono stati imprigionati, torturati, uccisi, in ottanta anni di prepotenze, dal governo italiano! Prepariamoci a riconquistare la nostra libertà e la nostra indipendenza!
Uniamoci tutti per questo sacro ideale! Senza distinzione di partiti o di condizione sociale, maschi e femmine, giovani e anziani, facciamo sulle tombe dei nostri padri un giuramento: liberare la Sicilia dal giogo del continente.
Questo appello è rivolto proprio a tutti: anche ai fascisti! Non mancano purtroppo tra noi coloro che, in buona o in mala fede, hanno dei torti; non mancano coloro che hanno taciuto, strisciato, mentito; non mancano coloro che si sono resi complici dell’oppressore.
Ebbene, anche per costoro si presenta un’occasione propizia – l’ultima occasione – di salvarsi. Collaborando alla salvezza della Sicilia, essi salveranno insieme sé stessi.
La nuova storia della Sicilia libera e indipendente dovrà incominciare sotto il segno della concordia e del perdono. Noi dimenticheremo tutte le colpe che saranno riscattate, in quest’ora decisiva per l’Isola nostra, con un comportamento degno dei siciliani.
In Sicilia o in continente, dagli spazzini ai liberi professionisti, dagli operai ai banchieri, dai contadini ai feudatari, dagli uscieri ai più elevati magistrati, dai semplici fascisti ai consiglieri nazionali, dai soldati ai generali, dagli agenti di pubblica sicurezza ai questori e ai prefetti, dai ferrovieri ai ministri, dai sacerdoti ai vescovi e ai cardinali, tutti i figli di Sicilia – e tanto più, quanto più alto è il loro grado e più grandi sono quindi le loro possibilità – collaborino con ogni mezzo alla liberazione della patria comune!
Chiunque, e dovunque si trovi, faccia la massima propaganda: persuada anche gli altri che la separazione della Sicilia è ormai inevitabile: separarci o morire! Sia questo il nostro motto.
Diffonda la nostra stampa clandestina; aiuti i separatisti, comunque possa e a tutti i costi; si adoperi per il successo di ogni iniziativa che sarà presa dal Movimento e comunicata dal nostro organo ufficiale Sicilia Indipendente.
Nei più piccoli paesi come nelle grandi città, ciascuno costituisca un Gruppo separatista, di persone fidate e devote, poche, dieci al massimo; e si tenga pronto ad accorrere, con esse, dove fosse necessario, secondo gli ordini che potessero essere diramati. A stabilire i contatti, se sarà il caso, si provvederà al momento opportuno.
La liberazione della Sicilia si compirà forse con tutta facilità, dato che le grandi potenze, Inghilterra e Stati Uniti, la vedono con simpatia. Però, bisogna sempre aver fiducia più nelle proprie forze che nell’aiuto degli altri. Sarà tanto di guadagnato, se sapremo fare da noi soli. E lo sapremo certamente se, in questi supremi momenti, saremo stretti tra noi come fratelli.
Ma guai a chi tradisce! Il passato sarà dimenticato, non l’avvenire. Da questo istante, prenderemo nota del comportamento di ciascuno. Non sono necessari i grandi gesti: dimettersi dalle pubbliche cariche o rifiutarle per il futuro non è obbligatorio, finché la direzione del Movimento non dia il segnale delle dimissioni in massa. Anzi, si può essere più utile ricoprendo un’alta carica, che non rifiutandola e lasciando così che la ricopra un indegno.
Guai però, ripetiamo, a quel siciliano che con le parole o con gli scritti o con le azioni si azzardi ad ostacolare, anche in minima parte, il movimento di liberazione! La nostra giustizia, presto o tardi, lo raggiungerà inesorabilmente.
Se noi saremo ben decisi, compatti, intransigenti (e certamente lo saremo) saremo anche invincibili.
Popolo siciliano, popolo dei Vespri, svègliati! Popolo grande, eroico e generoso, abbi fede! Asciuga le lacrime e stringi i denti! Le tue sofferenze sono ormai alla fine. Coraggio, dunque! Tieniti pronto ad innalzare la bandiera della Sicilia libera e indipendente!
La Sicilia di domani sarà quale noi la vogliamo: pacifica, laboriosa, ricca, felice, senza tiranni e senza sfruttatori!
Mario Turri
Dicembre 1942