Del brigantaggio postunitario si è detto e scritto tanto, troppo.
Più che altro, forse, troppo male, con una voluta distorsione della realtà storica che ha fatto sì che tutte quelle frange della popolazione meridionale, di qualsivoglia estrazione, che fossero contrarie all’ordine costituito e imposto, a tutti gli effetti, da stranieri, o che fossero rimaste disilluse dalle false promesse di divisione delle terre, o che avessero visto svanire nel nulla secolari usi civici collettivi, o che si opponessero a una leva obbligatoria mai conosciuta prima e la cui unica e tangibile conseguenza era l’allontanamento di giovani dalle loro famiglie e dalle loro case, di braccia forti dalle terre che qualcuno avrebbe pur dovuto lavorare, … ha fatto sì, dicevo, che tutte quelle frange venissero semplicemente tacciate di essere reazionarie, lealiste borboniche, dedite a malvivenza e atti criminali di tipo banditesco, … in sostanza di essere briganti!
Tardivamente, ma fortunatamente aggiungerei, già da tempo ci si è avviati su un percorso revisionista serio e obiettivo, che mira innanzitutto a ristabilire un minimo di verità storica e a restituire dignità a quel meridione da sempre visto come arretrato e parassita ma che, nei fatti, 160 anni fa fu depredato di ogni sua ricchezza.
Carmine Crocco, il suo luogotenente Giuseppe Nicola Summa detto Ninco Nanco, Giuseppe Caruso detto Zi’ Beppe, Cosimo Giordano, Gaetano Manzo, Pietro Monaco e la moglie Maria Oliverio detta Ciccilla, Filomena Pennacchio, Michelina Di Cesare il cui corpo trucidato fu denudato ed esposto in piazza, sono solo alcuni tra i tanti nomi famosi di briganti postunitari, la gran parte provenienti da Calabria, Lucania, Campania, basso Lazio e Abruzzo.
Figure di rilievo, meno note e spesso trascurate, personaggi in alcuni casi affascinanti, si incontrano anche nelle vicende immediatamente postunitarie di Sicilia.
Tra i nomi più conosciuti vi è quello di Giovanni Boncoraggio, nato a Canicattini Bagni il 27 Giugno del 1831, che agì nel territorio siracusano, all’epoca comprendente anche quello ragusano.
Il padre Francesco, originario di Ragusa, si era trasferito a Canicattini Bagni per lavorare presso le Case Grandi di feudo Cardinale, in realtà in territorio di Noto ma molto più vicino a Canicattini.
Il cognome Boncoraggio, che pare venisse dato nel Medioevo ai figli come nome benaugurante a che avessero il coraggio necessario ad affrontare la vita, avrebbe avuto origine in Sicilia tra gli attuali territori siracusano e ragusano, in maniera probabilmente disgiunta da altro ceppo nobiliare diffuso in Veneto. Nel tempo, però, è andato soggetto a storpiature e alterazioni, tant’è che si rinviene oramai in maniera sporadica, quasi esclusivamente nel siracusano. La variante Boncoraglio è divenuta, invece, predominante nel ragusano, dove vi sarebbe rappresentato oltre il 50% dell’intera distribuzione nazionale e circa il 70% di quella regionale.
Arrestato una prima volta nel 1857 e condannato a sette anni per furto ai danni dei nuovi proprietari del feudo, i Musso di Palazzolo Acreide, Giovanni fu scarcerato nel 1860 grazie all’amnistia disposta da Garibaldi.
Nuovamente arrestato nell’aprile del 1864, fu condannato a dieci anni da scontare nel penitenziario dell’isola di Palmaria, nel mar Ligure, da cui riuscì a evadere un paio d’anni dopo.
Rientrato furtivamente nel paese natale, si mise a capo di una banda di decine di uomini che razziò quello che era allora l’intero territorio siracusano, comprensivo quindi dell’odierno territorio ragusano, con furti e sequestri di persona ai danni di quei notabili, di quella ricca borghesia unitarista che considerava usurpatrice, essendosi impossessata dei beni demaniali storicamente destinati agli usi civici collettivi di contadini e pastori, illusi e defraudati, … futtuti e mazziati!
Il rifugio della banda si trovava nei cosiddetti “ddieri” del bosco di Baulì, strutture rupestri direttamente scavate nella roccia calcarea che caratterizza l’intero altopiano ibleo.
Originariamente adibite a tombe, così come nelle limitrofe necropoli di Cassibile, Pantalica, fino a quelle di Cava d’Ispica, le strutture di Baulì iniziarono a essere abitate in epoca bizantina da interi gruppi provenienti dalle città lungo la costa, nel tentativo di sfuggire sia a un’opprimente politica fiscale, sia ai primi assalti saraceni. Vennero scavate nuove stanze per adattarle alle esigenze dei nuovi abitanti e renderle vere e proprie case, anche su più livelli, collegate tra loro da una serie di cunicoli e gallerie. Gli ambienti più ampi, invece, furono adibiti al culto, le chiese rupestri del periodo bizantino.
Successivamente abbandonati, i “ddieri” divennero il rifugio perfetto per quanti non accettavano l’annessione al regno d’Italia, per malavitosi d’ogni genere e per briganti, tanto che uno dei principali ambienti di Cavagrande del Cassibile, la cosiddetta Grotta dei Briganti, ne porta ancora il riferimento nel nome.
Forse tradito da uno dei suoi stessi uomini, Giovanni Boncoraggio fu arrestato la mattina del 15 dicembre 1867 nella Grotta della Cisternazza, in contrada Cavadonna.
Sottoposto, insieme ad altri, a due processi ravvicinati presso la Corte d’Assise di Siracusa, il 17 agosto e il 13 settembre del 1870 fu condannato ai lavori forzati a vita, alla perdita dei diritti politici e all’interdizione patrimoniale. Nel primo dei due processi, venne condannato ai lavori forzati, per dieci anni, anche il fratello maggiore Emanuele.
Uscito di prigione nel 1900 per condotta esemplare e per alcuni benefici di Legge, dopo aver scontato trentatré anni di pena, fece ritorno a Canicattini Bagni dove trascorse gli ultimi anni di vita. Morì il primo aprile del 1910.
A N T U D U !
(alla siciliana, come mi hanno insegnato Pippo Scianò e Corrado Mirto, con la U finale al posto della O, espressione formalmente inesatta ma più vera e vicina al modo di esprimersi di un popolo fiero nei secoli, ma forse un po’ digiuno di Latino!)