Quest’anno è caduto il 742° anniversario del Vespro!
Non ne racconterò la storia, non ne ho le competenze e in molti almeno la conoscono e saprebbero raccontarla certamente meglio di me. Giusto alcuni richiami e riflessioni.
Innanzitutto: com’è possibile che, dopo quasi sette secoli e mezzo, il Vespro sia ancora così sentito e tale da avere ogni anno commemorazioni sempre partecipate? Nulla di simile accade, ad esempio, per l’incoronazione di Ruggero II, il giorno di Natale del 1130, che sancì la nascita del Regno di Sicilia e fu il punto di partenza di quei 686 anni di indipendenza dell’isola di cui tanti Siciliani andiamo fieri.
Il Vespro non fu una semplice ribellione, quasi estemporanea, al gesto improvvido del povero Drouet, il 30 (o 31, secondo alcuni) marzo del 1282. Il malcontento nei confronti degli angioini in realtà covava da tempo, per la loro politica fiscale opprimente, i soprusi e le violenze.
Pippo Scianò lo chiamava “la Rivoluzione del Vespro”, una vera e propria rivoluzione, organizzata, diffusa, capillare, con una sua propria bandiera e suoi capi in tutta l’isola, innanzitutto Palmiero Abate nella Val di Mazara, Alaimo di Lentini nella Val Demone, Gualtiero di Caltagirone nella Val di Noto, Ruggero Mastrangelo a Palermo, Federico Mosca e suo figlio Manfredi nella Contea di Modica.
Vi fu coinvolto Giovanni da Procida, legatissimo alla dinastia sveva, al fianco di Manfredi nella disfatta di Benevento del 1266 e che, leggenda vuole, avrebbe raccolto il guanto di sfida lanciato in punto di morte da Corradino di Svevia, decapitato il 29 ottobre del 1268, neppure diciassettenne, a Campo Moricino, l’attuale Piazza del Mercato di Napoli. Si narra che proprio il 30 marzo, sullo Scoglio del Malconsiglio di fronte Trapani, Giovanni da Procida abbia segretamente incontrato Palmiero Abate, Alaimo di Lentini e Gualtiero di Caltagirone. E si narra anche che sia stato proprio lui ad architettare l’incidente tra il soldato francese Drouet (povero “Druetto”, passato alla Storia come l’unico colpevole!) e la nobildonna palermitana, sul sagrato della Chiesa del Santo Spirito. Nobildonna che, in realtà, altri non sarebbe stata che Imelda sua figlia, fatta giungere ad arte da Napoli.
E allora, se il Vespro è ancora così sentito, credo sia soltanto perché fu, banalmente, la manifestazione più alta della fierezza di un Popolo. Nel 1860, Marx ed Engels scrivevano: «In tutta la storia della razza umana nessuna terra e nessun popolo hanno sofferto in modo altrettanto terribile per la schiavitù, le conquiste e le oppressioni straniere, e nessuno ha lottato in modo tanto indomabile per la propria emancipazione come la Sicilia e i siciliani. […] il suolo siciliano si è sempre dimostrato letale per gli oppressori e gli invasori, e i Vespri siciliani restarono immortalati nella storia».
Addirittura, Rafael Olivar y Bertrand, storico spagnolo originario dell’Estremadura ma fine conoscitore della Storia dell’isola, lo considerava “una delle epopee più gloriose della storia umana”, nell’epoca “più gloriosa della storia dell’isola”.
Altro richiamo desidero farlo a un personaggio che amo tanto (non solo io, ovviamente), grazie agli insegnamenti del professor Corrado Mirto, il massimo esperto di Storia medievale siciliana e del Vespro in particolare, della cui personale amicizia sono stato fiero e onorato. Mi riferisco a Federico III Re di Sicilia, “un re da leggenda” come lo definì sempre Rafael Olivar y Bertrand, non direttamente legato all’episodio del Vespro in senso stretto, ma che ne riprese la guerra fino alla pace di Caltabellotta dell’agosto 1302, sancita con Carlo di Valois, capitano generale di Carlo II d’Angiò.
Sebbene fosse nato a Barcellona, Federico III fu fortemente legato alla Sicilia e al Popolo Siciliano, da cui fu profondamente amato. Ormai moribondo e steso su una lettiga, fu portato a spalla, a mo’ di staffetta, fino alle porte di Catania, dove morì il 25 giugno del 1337. Apro una parentesi: sul luogo di morte di Federico III, tradizione ha sempre voluto fosse un convento dei Cavalieri di San Giovanni a poche centinaia di metri dal Castello Normanno di Paternò. Una diversa ipotesi, basata su chiare testimonianze storiografiche, lo individuerebbe invece nella Chiesa di San Giovanni Gerosolimitano, in seguito Chiesa di Santa Maria della Nunciata, nell’odierna Contrada Mezzocampo, o della Nunziatella, in territorio di Misterbianco, a poche centinaia di metri da Poggio Cardillo, sito oggi destinato a ovile! È un’ipotesi molto ben documentata, non mia ma che ho in qualche modo fatto mia (Dove morì il Re?), che si deve alle ricerche di un appassionato e attento studioso delle vicende siciliane e della Sicilia aragonese in particolare, il prof. Santi Maria Randazzo. Chiudo la parentesi!
Fu un buon legislatore ed emanò norme assolutamente innovative per il medioevo, con garanzie costituzionali che andavano dal rispetto di ben precisi doveri da parte dei reggenti, all’obbligo di convocare il Parlamento siciliano almeno una volta all’anno nel giorno di Tutti i Santi, alla tutela dei beni dei condannati. La sua stessa nomina da parte del Parlamento siciliano in sostituzione del fratello Giacomo II d’Aragona, reo di aver sottoscritto il trattato di pace di Anagni, fu qualcosa di eccezionale in un tempo in cui si diveniva sovrani per diritto divino.
Come ricordava Corrado Mirto, «… l’elezione di Federico [nel 1296] era la sfida di un piccolo popolo deciso a difendere la propria libertà contro le viltà e gli egoismi di una grande coalizione europea che aveva deciso di sacrificarlo sull’altare dei suoi interessi e della sua pace [si riferiva alla coalizione tra angioini di Napoli, guelfi italiani, regno di Francia, regno d’Aragona, papato di Bonifacio VIII] … Con l’elezione di Federico III i Siciliani ebbero un re nazionale, un regno dunque indipendente e non una colonia aragonese e, primi in Europa, una monarchia costituzionale, nella quale i diritti del sovrano erano limitati non soltanto dalla nobiltà, ma anche dai rappresentanti delle città, e alla base della quale vi era un patto stretto fra il re e il popolo».
La storia e la figura di Federico III sono tra quelle che si è provato a far sparire o perlomeno a deformare, minimizzando la portata della sua figura. Nel suo pamphlet Federico III di Sicilia: un grande sovrano per un grande popolo, il professore Mirto amaramente rifletteva: «Quando si vuole togliere l’identità ad un popolo gli si tolgono la cultura, la lingua e la storia, in maniera che i “colonizzati” finiscano con l’identificarsi con la cultura, la lingua e la storia del Paese dominante. Questo è accaduto ai Siciliani, i quali sono stati convinti del fatto che essi non hanno una propria cultura e che la loro lingua è un rozzo dialetto. […] Con una tenace attività, poi, la storia siciliana è stata fatta in parte scomparire (per esempio: Federico III) e in parte è stata alterata. Per la Sicilia si parla infatti soltanto di dominazioni straniere e i Siciliani sono visti costantemente come oggetti passivi della storia siciliana, che sarebbe fatta sempre dagli stranieri».
Qual è il senso di tutto quanto sopra, se mai ve n’è uno?
Molto semplicemente, come hanno insegnato Pippo Scianò e Corrado Mirto, qualsiasi progetto, programma, rivendicazione o addirittura aspirazione indipendentista deve necessariamente fondarsi sul recupero della memoria storica, sulla riscoperta e sulla rivalutazione di vicende e personaggi che hanno caratterizzato e fatto grande la Storia della nostra terra, malgrado si sia fatto di tutto per cancellarla o ridimensionarla. È necessario riappropriarci della nostra Lingua, che non è un rozzo dialetto ma una Lingua con la “L” maiuscola, nella quale la stessa Real Cancelleria redigeva, nel XIV e XV secolo, i documenti poi presentati alla firma del re, e di quelle che sono le nostre tradizioni, la nostra cultura.
Qualsiasi progetto, programma, rivendicazione o aspirazione indipendentista che mancasse di tutto ciò, che non si fondasse sull’orgoglio, sulla consapevolezza di essere stati e di essere un grande Popolo, nascerebbe monco e sarebbe irrimediabilmente destinato a fallire miseramente.
Concludo con un ricordo rivolto “al caro amico e fratello siciliano”, come egli mi definì in una dedica, Giovanni Basile, il segretario informale, la spalla, di Pippo Scianò, cultore di Storia della Sicilia e raffinato poeta in Lingua Siciliana. Proprio al Vespro e alla battaglia navale di Capo d’Orlando del 4 luglio 1299 Giovanni Basile dedicò due delle sue più belle liriche in Lingua Siciliana, rimaste tuttora inedite per la sua improvvisa e prematura morte, nove anni fa.
A N T U D U !
(alla siciliana, come mi hanno insegnato Pippo Scianò e Corrado Mirto, con la U finale al posto della O, espressione formalmente inesatta ma più vera e vicina al modo di esprimersi di un popolo fiero nei secoli, ma forse un po’ digiuno di Latino!)