Ciaculli è una borgata di Palermo ai piedi di Monte Grifone, nato e sviluppatosi come una delle principali aree agricole e, soprattutto, agrumicole dell’intera Conca d’Oro, noto per il suo mandarino tardivo, ‘u marzuddu, così chiamato per la sua maturazione nel mese di marzo.
Nella notte del 30 giugno del 1963, a Villabate, nell’ambito di quella che è nota come prima guerra di mafia, l’esplosione di un’autobomba davanti all’autorimessa del boss Giovanni Di Peri provocò la morte del custode Pietro Cannizzaro e del fornaio Giuseppe Tesauro.
Poche ore dopo, una telefonata anonima alla questura di Palermo avvisava di una Giulietta Alfa Romeo abbandonata a Ciaculli con le portiere aperte. Disinnescato un primo ordigno al suo interno, nell’esplosione di una seconda bomba nascosta nel bagagliaio persero la vita il tenente Mario Malausa, il maresciallo Calogero Vaccaro e gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli dell’Arma dei Carabinieri, il maresciallo Silvio Corrao del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, oggi Polizia di Stato, il maresciallo Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci dell’Esercito, in quella che è nota come strage di Ciaculli, uno degli episodi più cruenti degli anni Sessanta.
Negli anni Ottanta, Tommaso Buscetta dichiarerà che entrambi gli attentati, il primo a Villabate e il secondo a Ciaculli, erano stati voluti dal boss Michele Cavataio per colpire proprio Giovanni Di Peri e il boss di Ciaculli, Salvatore Greco. Secondo altre ricostruzioni, invece, l’attentato di Ciaculli sarebbe stato organizzato per colpire direttamente il tenente Mario Malausa, colpevole di indagare sui rapporti tra mafia e politica. Il padre di questi morì pochi mesi dopo, di crepacuore.
Erano, quelli, anni in cui paura (per la gran parte delle persone comuni), connivenza (per i malavitosi), incapacità o scarsa volontà (da parte dello Stato nella sua accezione più ampia e onnicomprensiva) di affrontare la questione, fecero sì che silenzio, reticenza, negazione dell’esistenza stessa del fenomeno mafioso fossero la norma e non l’eccezione. Ne è testimone l’esito del primo, grande processo di mafia, il cosiddetto processo dei 117 tenutosi a Catanzaro nel 1968, che vide la condanna di uno sparuto numero di imputati e l’assoluzione per insufficienza di prove di oltre quaranta di loro. Circostanza, questa, il cui effetto principale sarebbe stato quello di conferire prestigio e autorità ai boss assolti e ingenerare enorme sfiducia nell’opinione pubblica, come affermato in alcune informative del 1971, a firma anche del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del commissario Boris Giuliano.
In questa generale atmosfera di sottomissione a un potere mafioso del quale era necessario o perlomeno opportuno si tacesse, fece scalpore l’affissione, in tutta Palermo, di un manifesto di forte denuncia civile, il primo vero grido contro la criminalità mafiosa, di cui quella che segue è una fedele ricostruzione.
Ne fu artefice Pietro Valdo Panascia, nato a Reggio Calabria nel 1910, uomo mite, pastore della Chiesa Valdese di Palermo dal 1956 al 1970, membro della Tavola Valdese per due mandati, figlio di Biagio, nato a Ragusa nel 1871 e a sua volta pastore della comunità valdese di Pachino dove, insieme alla moglie, si impegnerà contro il diffuso analfabetismo e si batterà contro la piaga dell’usura, dando vita, nel 1908, alla Cooperativa Produzione e Lavoro, che diventerà poi la Banca di Credito Cooperativo di Pachino.
Il pastore Pietro Valdo Panascia si adopererà per la creazione del Centro Diaconale “La Noce”, una grande opera sociale senza fini di lucro, impegnata innanzitutto nel settore scolastico e in quello riabilitativo, con un’attenzione particolare all’infanzia svantaggiata.
Rafforzerà e consoliderà la Chiesa Valdese di Palermo fino al riconoscimento, nel 1961, del suo regime autonomo da parte del Sinodo Valdese, unico caso in tutto il sud Italia.
Si prenderà cura degli abitanti del cortile Cascino, la baraccopoli che ospitava 300 famiglie al centro di Palermo, a poche centinaia di metri dalla Cattedrale, dal Palazzo dei Normanni, dal Giardino della Zisa, dal Teatro Massimo, luogo di degrado e di miseria conosciuto anche come il pozzo della morte, per via dell’elevata mortalità infantile.
In occasione del terremoto del Belice del 15 gennaio del 1968, si attivò per la realizzazione di una ventina di case prefabbricate, il cosiddetto Villaggio Speranza nel piccolo comune di Vita, nel trapanese, da assegnare a senzatetto.
Ma la sua “iniziativa per il rispetto della vita umana”, il suo manifesto antimafia, fu certamente l’iniziativa più eclatante per l’opinione pubblica, tanto da attirarsi accuse più o meno velate di “speculazione protestante” e, soprattutto, da indurre il Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede, mons. Angelo Dell’Acqua, a inviare un pressante invito all’allora arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, a che anche la Chiesa Cattolica siciliana assumesse una posizione netta contro la mafia, evitando ogni ambiguo legame tra mentalità mafiosa e mentalità religiosa:
«Dal Vaticano, 5 agosto 1963. Eminenza Reverendissima, come è noto all’Eminenza Vostra Reverendissima, la Chiesa Evangelica Valdese, su iniziativa del Rev. Pastore Piero Valdo Panascia di Palermo, ha pubblicato lo scorso mese in codesta Città un Manifesto per deplorare i recenti attentati dinamitardi che hanno provocato numerose vittime tra la popolazione civile. Nel segnalare detta iniziativa all’Eminenza Vostra, mi permetto sottoporre al suo prudente giudizio di vedere se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità di così detta mafia da quella religiosa e per conformare questa ad una più coerente osservanza dei principi cristiani, nel triplice scopo di elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana. Mi onoro profittare della circostanza per baciarLe la Sacra Porpora e confermarmi con sensi di profonda venerazione dell’Eminenza Vostra Reverendissima. Umil.mo Dev.mo Obbl.mo Servitore Angelo Dell’Acqua»
La piccata risposta dell’arcivescovo di Palermo non tardò ed è datata 11 agosto, da Chianciano:
«Eccellenza Reverendissima, … Conoscevo già il Manifesto pubblicato dal Pastore valdese: iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall’Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali. Un alto funzionario di Polizia, ben addentro alle segrete cose e abilissimo, proponeva il dubbio: che cosa si dovesse intendere per mafia, e rispondeva egli stesso che trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio. Spesso sono vendette per torti ricevuti, altre volte contrasti per interessi privati, che creano gelosie e invidie; tal altra sono giovinastri disoccupati che tentano di fare fortuna con furti e ricatti; ma in nessun caso è gente che frequenta la chiesa. In tanti anni di sacro ministero non ho mai potuto rilevare la più piccola relazione del clero con i delinquenti. I fatti di Mazzarino andrebbero considerati a parte. [A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, un gruppo di frati cappuccini, complici di mafiosi, si resero colpevoli di estorsioni e ricatti. In quegli anni, furono commessi anche omicidi.] L’apostolato che viene svolto con assiduità in tutte le Parrocchie è in netta contraddizione con la delinquenza che qualunque forma rivesta è sempre riprovata e condannata, come è palese a tutti. L’azione cui Vostra Eccellenza accenna, “d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale” è tutt’altro che trascurata. Il bene che viene fatto per “per elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, pacificare gli animi, e prevenire nuovi attentati alla vita umana” non è eccezionale, come l’intervento del Pastore Pier Valdo Panascia, ma continuo. … Il Governo Nazionale ha troppo dimenticato – per vari decenni – le Provincie della Sicilia Occidentale. Pensi, Eccellenza, che non si provvede ancora abbastanza all’istruzione elementare, io stesso sono stato perciò costretto fin dal principio del mio episcopato ad aprire numerose scuole per migliaia e migliaia di analfabeti. Vengano a vedere i critici e gli ipercritici come sono ancora oggi molti paesi della Provincia. … L’inchiesta in corso sulla mafia – che riveste un carattere marcatamente politico – non raggiungerà lo scopo voluto se non si provvederà a rafforzare la Polizia, dandole maggiori poteri. … Mi si assicura che al tempo del Fascismo – che a differenza di tanti antifascisti di oggi non ho mai visto di buon occhio – i delitti in Sicilia erano scomparsi; e non si può dire che il popolo fosse allora più cristiano di adesso. Si stanno facendo retate di persone più o meno sospette, ma si corre rischio di commettere ingiustizie disonorando persone oneste e recando indicibili pene a buone famiglie. Torno a dire che basterebbe dare alla Polizia quell’autorità che ha nei paesi più civili del mondo. Videant consules! Ma, per carità, non si creda nemmeno per sogno che la religione e la cosiddetta mafia sono consociate. … Qualora “collatis consiliis” risultasse utile al riguardo, qualche ulteriore, particolare azione Ecclesiastica, non si mancherà certo di intraprenderla. Sono lieto di ossequiarLa con i sensi di profonda stima, augurandoLe di cuore ogni prosperità nel Signore. Di Vostra Ecc. Rev.ma obb.mo Ernesto Card. Ruffini»
Giusto un paio di considerazioni!
Prima considerazione: era necessario o indispensabile che il pastore Panascia, persona umile e degna, desse vita alla sua “iniziativa per il rispetto della vita umana”, a che le alte cariche della Chiesa di Roma si degnassero di smuoversi dal loro torpore? E se il pastore Panascia nulla avesse fatto, quando mai sarebbe cambiato qualcosa?
Seconda considerazione: è o sarebbe eccessivamente facile scaricare ogni responsabilità sul cardinale Ruffini. Indubbiamente, egli non comprese appieno la natura e la dimensione del fenomeno mafioso, ma analisi storiche recenti hanno escluso sue colpe dirette. È anzi vero, al riguardo, che l’anno successivo pubblicò la lettera pastorale “Il vero volto della Sicilia”, primo documento della Chiesa cattolica sulla mafia, in cui egli, lombardo di nascita, cercava tra l’altro di far comprendere come non si potessero e dovessero confondere criminalità mafiosa e popolazione siciliana nella sua generalità.
Tornando al pastore Pietro Valdo Panascia, la sua attività religiosa e il suo impegno civile e sociale rappresentarono un collante tra la Chiesa Valdese e la città di Palermo, tanto da rendere vivo il suo ricordo ancora oggi, a quasi quindici anni dalla sua morte.
Domenica 5 luglio del 2020, inoltre, Palermo volle titolargli un breve tratto di Via Isidoro La Lumia, tra il Teatro Politeama e la Chiesa Valdese di Via dello Spezio!
A N T U D U !
(alla siciliana, come mi hanno insegnato Pippo Scianò e Corrado Mirto, con la U finale al posto della O, espressione formalmente inesatta ma più vera e vicina al modo di esprimersi di un popolo fiero nei secoli, ma forse un po’ digiuno di Latino!)