(adattato dal vecchio blog Sikeloi.net, 2014)
Manfredi, ultimo re svevo di Sicilia, aveva in realtà usurpato il trono che era stato del nipote Corrado Hohenstaufen, detto Corradino, re di Sicilia come Corrado II e figlio dell’imperatore Corrado IV, a sua volta re Corrado I di Sicilia.
Pare, tra l’altro, che Manfredi fosse responsabile anche dell’avvelenamento del fratello imperatore. Ma di ciò non v’è prova certa.
Ad ogni modo, Corradino, re per soli quattro anni, dal 21 maggio del 1254 al 10 agosto del 1258, tra i 2 e i 6 anni d’età, passò un’infanzia e un’adolescenza tranquille e serene in Baviera, insieme alla madre Elisabetta di Wittelsbach.
Alla morte dello zio, caduto nella battaglia di Benevento contro i guelfi di Carlo d’Angiò, il 26 febbraio del 1266, Corradino venne invocato dai ghibellini per combattere e cacciare il nuovo e odiato sovrano.
Accolto con entusiasmo, soprattutto nella ghibellina Pisa, mosse alla volta di Roma, dove conseguì quel trionfo di cui non era stato capace neppure il nonno, l’imperatore Federico II di Svevia, stupor mundi, re di Sicilia come Federico I.
Incoraggiato anche da una serie di vittorie, si diresse verso Sud, intenzionato a riprendersi quel regno che era stato dei suoi avi.
Il 23 agosto del 1268, sull’altopiano marsicano dei Piani Palentini, si ebbe lo scontro finale, in quella che è drammaticamente passata alla storia come Battaglia di Tagliacozzo.
Sconfitto dopo un’iniziale supremazia, Corradino riparò dapprima a Roma, quindi a Torre Astura, lungo il litorale laziale, dove, tradito dai Frangipane, i signori del luogo, venne catturato.
Processato e condannato a morte per lesa maestà, si attribuisce a papa Clemente IV, per l’occasione, la frase «Mors Corradini, vita Caroli. Vita Corradini, mors Caroli», «La morte di Corradino è la vita di Carlo. La vita di Corradino è la morte di Carlo», pronunciata a mo’ di consiglio a un Carlo I d’Angiò timoroso della reazione di un popolo legato alla dinastia sveva e che mai avrebbe potuto comprendere di quale lesa maestà si potesse accusare chi lottava contro un usurpatore quale egli era. Spietato e crudele, per di più!
Corradino morì il 29 ottobre del 1268, neppure diciassettenne, decapitato a Campo Moricino, l’attuale Piazza del Mercato di Napoli.
Leggenda vuole che egli, andando dignitosamente al patibolo, si sia sfilato un guanto e lo abbia lanciato alla folla. A raccoglierlo, Giovanni da Procida, già consigliere di Federico II e tra i futuri promotori della Rivoluzione del Vespro in chiave antiangioina!
Il suo cadavere fu oltraggiato, trascinato e abbandonato vicino al mare, ricoperto solamente da qualche pietoso sasso!
Nel 1351, sul luogo del patibolo, venne eretta una piccola cappella. Nel 1786, essa venne trasformata nella Chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato, consacrata nel 1791. Danneggiata dapprima dai bombardamenti nel corso della seconda guerra mondiale, poi dal terremoto del 1980, l’accesso vi è oggi precluso.
Informata della cattura e della condanna a morte del figlio, Elisabetta si precipitò a Napoli, nel disperato e vano tentativo di riscattarlo.
Poté solamente fare un lascito a quella che è oggi la vicina Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore, dove riposano le spoglie di Corradino. In virtù di quel lascito, ancora oggi, ogni anno, viene celebrata una messa in suo suffragio!
Altra leggenda narra che Corradino abbia trascorso la notte prima dell’esecuzione in compagnia di una donna. Dalla loro unione sarebbe nato un figlio, legittimo erede della dinastia sveva!
Da essa trasse spunto, una decina di anni fa, lo scrittore Giuseppe Pederiali per il romanzo La vergine napoletana, la cui finalità intrinseca è di recuperare la speranza di una pacifica convivenza tra cristiani e musulmani, magistralmente avveratasi al tempo di Federico II.
Morto Corradino, Carlo I d’Angiò si preoccupò di imporre un regime fiscale oppressivo, vietò il porto d’armi, istituì la perquisizione personale, estesa anche alle donne, introdusse l’odioso jus primae noctis, perseguitò con crudeltà ogni atteggiamento antifrancese.
Non è difficile comprendere, quindi, come al popolo siciliano sia sempre stato inviso il giogo angioino. Mancava solo l’occasione!
Che si sarebbe presentata pochi anni dopo, sotto un altro grande re, quel Federico III di Sicilia che lo storico spagnolo Rafael Olivar Bertrand avrebbe definito, nel 1951, “un re da leggenda”, alla guida del popolo siciliano in quella che fu la Rivoluzione del Vespro, “una delle epopee più gloriose della storia umana”, nell’epoca “più gloriosa della storia dell’isola”!
Ma questa è un’altra storia!